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LA LOCANDIERA - regia Antonio Latella

“La Locandiera",  regia Antonio Latella “La Locandiera",  regia Antonio Latella

di Carlo Goldoni
regia di Antonio Latella
dramaturg Linda Dalisi
assistente alla regia Marco Corsucci
assistente alla regia volontario Giammarco Pignatiello
con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Annibale Pavone, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Trieste, Politeama Rossetti, 18 ottobre 2024     

www.Sipario.it, 19 ottobre 2024

Un classico di Goldoni riproposto in chiave niente affatto consolatoria, quasi “un manifesto teatrale che dà inizio al teatro contemporaneo” che non inneggia solo alla scaltrezza della seduzione femminile ma che è teso anche alla lotta di classe, ad affermare la vittoria del popolo con il suo buon senso e l’intelligenza sull’aristocrazia. Si tratta de “La locandiera” firmata da Antonio Latella che approda al Politeama Rossetti di Trieste a completare il trittico d’ottobre (con Sior Todero Brontolon e L’incognita) dedicato all’avvocato veneziano. Ad affrontare il ruolo della protagonista, cavallo di battaglia di molte prime attrici della scena italiana, troviamo un’abilissima Sonia Bergamasco che ridimensiona tutta la sua forza attorale in nome di una recitazione più contenuta, quasi cinematografica, fatta di pause, toni bassi e lenta e studiata gestualità. La sua interpretazione sottolinea le mille sfaccettature, anche malinconiche, di un carattere forte, ancorato alla realtà ma che vagheggia una mésalliance impossibile, pena la libertà, con il Cavaliere di Ripafratta, danzando e annusando il paltò che le ha prestato e che vorrebbe conservare. A sua volta “il nemico capitale delle donne” ostenta albagia e protervia quasi violente che gradualmente s’impennano e poi scemano davanti al “tratto nobile che incatena” della sincera e intrigante popolana. Il nobile misogino, “esempio vivissimo della presunzione avvilita”, ha l’estrosità di Federico Fededegni. Continuo è il confronto con gli antagonisti maschili: il Marchese di Forlipopoli ormai spiantato (Giovanni Franzoni), il Conte di Albafiorita, sfacciato parvenu (Francesco Manetti), e il cameriere flemmatico Fabrizio (Valentino Villa).

Nessun cenno nella messinscena al secolo dei lumi: vagamente settecentesca nelle decorazioni è solo la larga boiserie di legno che fa da fondale. Gli abiti sono volutamente sciatti e contemporanei: maglioni, tute e camicie per gli uomini, maxi t-shirt e camicie chiare per Mirandolina, tailleur neri per le goffe e interessate commedianti (le buffe Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo). Al centro un tavolo, circondato da sedie di plastica da esterno, e una piccola cucina in acciaio dove campeggia una casseruola di ghisa rossa. Talora, per sottolineare la drammaticità degli eventi, si sente il prosaico sfrigolio dei neon che illuminano l’interno anonimo dell’albergo fiorentino. Tutto mira ad enfatizzare il realismo e l’attualità del testo (e in questo si percepisce anche un omaggio al Goldoni di Massimo Castri), la sua vicinanza per pensieri e parole alla nostra quotidianità dove è normale la superiorità del maschio sulla femmina, della classe dirigente sul ceto lavoratore. 

Nella sua lenta evoluzione, quindi, la storia rappresentata è destabilizzante, è “un atto politico” di cambiamento, perché nel finale la posizione centrale spetterà alla locandiera e alla servitù, non senza sofferenza e inquietudine.

Elena Pousché

Ultima modifica il Lunedì, 21 Ottobre 2024 10:27

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