sabato, 22 giugno, 2024
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 PRIMAVERA DEI TEATRI A CASTROVILLARI 2024. -di Gigi Giacobbe

"Affogo", scritto e diretto da Dino Lo Pardo. Foto Angelo Maggio "Affogo", scritto e diretto da Dino Lo Pardo. Foto Angelo Maggio

Una “P” stilizzata che sta per “Primavera” era il logo che appariva in tutti i siti in cui si svolgevano gli avvenimenti teatrali di questa 24ª Edizione del Festival di Castrovillari, diretta sempre autorevolmente da un triunvirato di personaggi che rispondono ai nomi di Saverio La Ruina, Settimio Pisano, Dario De Luca. Una manifestazione cui vede partecipi la maggior parte dei critici e studiosi italiani e d’un pubblico sempre crescente, non solo calabrese, che segue con curiosità e interesse il meglio che si produce nel nostro paese. Non c’era più, rispetto al passato, un manifesto, spesso una foto d’autore che caratterizzava la kermesse, sostituito quest’anno da un progetto grafico, quasi una nebulosa informale dai colori rossi, lambiti dai blu e viola, per spaziare forse sui temi più variegati del nostro Teatro. Chi scrive riferisce degli spettacoli che ha visto, a cominciare da Affogo, scritto e diretto da Dino Lo Pardo nello spazio denominato “Il Capannone”, un tempo stazione ferroviaria di Castrovillari, il cui interprete Nicholas di Mario Russo sguazza realisticamente per tutto il tempo all’interno d’una piccola vasca da bagno, unico oggetto scenico (sempre di Lo Pardo cui si devono pure le ottime luci) inserito tra una lastra di vetro con disegni fallici e una rete metallica giusto per appoggiarvi una spugna, una doccia e un accappatoio. La sensazione che si ha, mentre Nicholas giochicchia maniacalmente con una piccola anatra di pezza, è che il suo desiderio di diventare un campione di nuoto, malgrado la paura dell’acqua, è stato bloccato da un avvenimento che lo ha segnato per sempre e che ritorna inesorabilmente nella sua mente. Fanno capolino le maschere dei suoi vecchi zii, lo spazio antistante, illuminato doviziosamente, diventa una specie di piscina dai riflessi azzurri e appare il fratello (Alfredo Tortorelli) in costume da bagno che gioca con lui con quel giocattolo di pezza e poi muore in acqua affogato senza poterlo salvare. Sembra quella favola di Tolstoj quando una notte, un'anatra sciocca nuotava nel fiume a caccia di pesci. Vide la luna riflessa nell'acqua, la scambiò per un pesce e cercò di prenderla. Le altre anatre risero di lei. Da quel giorno l'anatra sciocca ebbe paura di sbagliare e non prese più pesci. Cosi morì di fame.

 2024 05 28 PdT ismene krypton foto Angelo Maggio 73 04644
Flavia Pezzo in Ismene. Foto Angelo Maggio

Flavia Pezzo è la protagonista di Ismene, uno dei 17 monologhi del poeta greco Ghiannis Ritsos tratto dal suo libro Quarta Dimensione. Sulla scena del Teatro Vittoria la Pezzo, stretta nel suo lungo e aderente abito nero, appare una belva, una leonessa ferita rimasta troppo tempo all’ombra d’una famiglia con troppe storie truci alle spalle. Fulvio Cauteruccio non volendo appesantire l’opera di Ritsos, ha scelto di farne un’opera rock con la complicità di Massimo Bevilacqua che si inserisce cantando alcuni successi della band inglese dei Depeche Mode o del gruppo musicale punk rock italiano CCCP e CSI, Johnny Cash, Nancy Sinatra e ad un tratto echeggia la voce di Edith Piaf con la struggete Je ne regrette rien. Ismene, come è noto, è la quarta figlia di Edipo e Giocasta, sorella dei due fratelli Eteocle e Polinice che si combattono sino alla morte di quest’ultimo e di Antigone che entra in conflitto con Creonte quando costui non vuole dare degna sepoltura al fratello ucciso. In questo spettacolo Ismene diventa caparbiamente la protagonista d’un dramma in cui rivendica la libertà di decidere della propria sorte, prendendosi l’intera scena, composta in prevalenza da cinque immagini che la ritraggono in modo caricaturale, sulle quale lei ad un tratto le imbratterà, scrivendoci sopra cinque lettere che compongono la parola MERDA, diventando lo spettacolo di Cauteruccio un inno alla vita e al coraggio di una donna che si offre volontariamente di morire con sua sorella.     

2024 05 29 PdT Mare di ruggine Antimo Casertano foto Angelo Maggio DSC05834
Mare di ruggine- La favola dell’Ilva di Antimo Casertano. Foto Angelo Maggio

Sino a pochi giorni fa si leggeva sui giornali che l’acciaieria dell’Ex-Ilva di Taranto potrebbe essere acquistata da colossi industriali indiani, dopo aver ucciso dalla sua nascita nel 1965 migliaia di lavoratori a causa di carcinomi, in particolare, cardio-respiratori per le esposizioni a sostanze tossiche come l’ossido di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo. Di questo parla Mare di ruggine- La favola dell’Ilva di Antimo Casertano, pure regista d’un lavoro d’impegno civile che rende visibile negli spazi del Capannone la sventurata condizione in cui erano costretti a lavorare migliaia di operai per poter mantenere le proprie famiglie. Lo spettacolo si snoda su una scena suggestiva che ritrae realisticamente un alto forno con relative tubature e camera di accensione, compreso un carrello ad un tratto che lancia scintille dappertutto. I sette bravi protagonisti, tutti da citare (Daniela Iola, Ciro Esposito, Francesca De Nicolais, Luigi Credendino, Gianluca Vesce, Lucienne Perreca e lo stesso Casertano) hanno i visi anneriti, indossano tute, guanti e occhiali da saldatore e creano piccoli spazi che li vedono protagonisti di colloqui lavorativi per essere assunti, contenti all’inizio d’un posto di un posto fisso e d’uno stipendio sicuro, così da poter pensare a matrimonio-famiglia-figli, maledicendo appresso quel lavoro che lentamente li porta alla tomba. Lo spettacolo non si sofferma solo sull’Ilva di Taranto, ma in modo rilevante tratta la nascita e la fine dell’Italsider di Bagnoli di Napoli, lungo un iter che attraversa quasi tutto il Novecento del secolo scorso, sino alla sua chiusura nell’ottobre del 1990. Durante il quale si accavallano storie di scioperi, polveri di amianto che si diffondono nell’aria, sirene che risuonano in ogni dove, amori che nascono comunque anche in quei luoghi infami, operai vestiti con tute e scafandri somiglianti a degli astronauti, mentre magari riecheggia la canzone Tu vuò fà l’americano di Carosone o il valzer n.2 di Shostakovich e si sentono le urla dei tifosi del Napoli che festeggiano con Maradona il primo campionato di calcio vinto nel 1987. Una favola non a lieto fine, con migliaia di famiglie che hanno capito che quelle fabbriche erano l’unica alternativa di lavoro per poter vivere e morire a Taranto, a Napoli come a Genova e Piombino. 

 2024 05 29 PdT vorrei una voce tindaro granata foto Angelo Maggio73 05178 2
Vorrei una voce con Tindaro Granata. Foto Angelo Maggio

Tindaro Granata è bellissimo e luminosissimo sul palco del Teatro Vittoria, vestito con pantaloni bianchi che gli arrivavano sotto lo sterno, avendo intorno cinque spot multicolori e  cinque piccole postazioni illuminate da lucette (quelle architettate da Luigi Biondi) sulle quali erano adagiate bluse e corpetti guarnite da luccicanti paillettes, che indosserà durante il suo fascinoso spettacolo, titolato Vorrei una voce, che poi  è un verso della canzone La voce del silenzio cantata da Mina che parla di un/una tale che vuole stare solo/a a pensare, anche se nel silenzio troppi ricordi gli/le ritornano nella mente e capisce che colui/colei che ha amato non si è mai allontanato dal suo cuore. Anche per questo spettacolo, come era avvenuto alcuni anni fa per Antropolaroid, Tindaro ha privilegiato la forma del monologo, innestandovi alcune note canzoni di Mina, cantate in playback, trovando questa volta ispirazione da una serie di suoi interventi teatrali con le detenute del Carcere femminile di Messina, all’interno del quale Daniela Ursino dirige il Piccolo Shakespeare nell’ambito del progetto Il Teatro per sognare. Conoscendo Tindaro e il suo modo metamorfico di stare in scena, sicuramente ha fatto “evadere” quelle donne recluse, trasportandole chissà in quali mondi, facendo ri-trovare la loro femminilità perduta. Allo stesso modo come è successo in questa occasione, raccontando con accenti calabresi cinque storie di quelle recluse, intervallandole con alcune sublimi canzoni come L’importante è finire, Ancora ancora ancora, Caruso e altre, indossando ogni volta un indumento luccicante diverso, mandando in sollucchero la platea. Staresti ad ascoltarlo per ore questo fuoriclasse originario di Tindari, senza annoiarti mai, così come tutto il pubblico che alla fine non smetteva di applaudirlo, tributandogli ovazioni e tanti bravo certamente meritatissimi.

 2024 05 29 PdT tutta colpa di ugo Dracma foto Angelo Maggio 73 05986 2
Tutta colpa di Ugo, scritta e diretta da Elvira Scorza. Foto Angelo Maggio

Sulla scena sobria del Teatro Sybaris, composta da un tavolo, alcune sedie, un cucinino e una credenza piena di barattoli artigianali di marmellata, chiusi con nastrino e stoffa colorata, è andato in scena Tutta colpa di Ugo, una black comedy scritta e diretta da Elvira Scorza con molto savoir faire al punto che sarebbe piaciuta pure ad Alfred Hitchcock. Per il modo come si snoda questo giallo che ha per protagonisti Iole e Carlo (rispettivamente Mariasilvia Greco e Loris De Luna), due fratelli che vivono insieme, sempre sull’orlo d’una crisi di nervi lei, cercando di autocontrollarsi lui per non prenderla a botte, bagnandosi di pipì ahi lui! ancora da grande i pantaloni. I due bisticciano per qualunque quisquilia, trovando una certa tranquillità solo quando lui va a dormire o quando lei guarda la TV per tutta la notte, facendosi di birra sino al mattino, dando fastidio al fratello per le zaffate puzzolenti che gli arrivano in faccia. La madre è morta e pure il padre è deceduto, ucciso da entrambi con colpi di pentola in testa anche perché era solito violentare Iole. Ad un tratto si presenta qualcuno alla porta che dice d’essere Ugo (Giuseppe Brunetti), parroco della vicina chiesa, arrivato lì per ritirare alcuni barattoli di quelle dolcezze, segnalate per il ritiro da una loro amica comune di nome Gianna. I due fratelli sono apparentemente gentili, gli offrono qualcosa da bere e da mangiare, insistendo oltre misura. Ugo rifiuta e poi esce dalla tasca una lettera, dicendo d’essere il loro fratello, tenuto sempre nascosto dalla madre e che adesso può trovare conferma da quelle parole che una voce femminile (quella della madre) legge fuori campo. I sentimenti che assalgano i due fratelli sono quelli di un grande stupore misto a diffidenza e nel parapiglia che ne segue Iole ammazza Ugo e Carlo uccide Iole. Un duplice omicidio che lascia un po’attoniti, compresi gli spettatori plaudenti e con un’espressione da punto interrogativo. 

2024 05 30 PdT Pinocchio davide Iodice foto Angelo Maggio 73 07257 1
Pinocchio- Che cos’è una persona?, ideazione, drammaturgia e messinscena Davide Jodice. Foto Angelo Maggio

Pinocchio è stato modellato nei modi più disparati. Adesso Davide Jodice cui si deve ideazione, drammaturgia e messinscena nello spazio del Capannone, lo amplifica in tanti Pinocchi con sindrome di Down o di autismo, o Williams, o Asperger, ragazzi in carne e ossa che compongono l’articolato gruppo di lavoro della Scuola Elementare del Teatro e del Conservatorio Popolare per le arti della Scena di Napoli, accompagnati genitori, fratelli o amici, che li seguono e li affiancano sulla scena come nella vita di tutti i giorni. Lo spettacolo s’intitola Pinocchio- Che cos’è una persona? architettato come una festa diversa dalle altre, in grado di esprimere una carica anarchica e un’emozione dirompente. Oltre ai tanti Pinocchi, cui viene applicato sulla scena live un lungo naso, sono presenti tante Fate turchine, Geppetto, il Gatto e la Volpe, il Teatro dei Burattini e c’è pure un Pinocchio che diventa asinello.  Molti spettatori hanno gli occhi lucidi, ma i Pinocchi non se ne accorgono, vanno avanti in girotondo, giocando e cantando, mentre singolare appare il Grillo parlante, quasi un Cristo dei nostri giorni, con grossa croce sulle spalle piena di libri da cui si staccano alcune pagine dove ci stanno scritte parole come magia e amore, crollando poi sul palco colpiti dalla bacchetta d’una Fata Turchina. Ad un tratto appare un catafalco e il girotondo diventa una processione funebre, chiedendosi qualcuno dei genitori quale sarà il futuro di questi ragazzi. Domande e risposte che si succedono, riguardanti la vita, l’amore, il male, il dolore, la normalità, quella che forse pochi di loro conosceranno e lo spettacolo si chiude con i ragazzi che pongono altre domande e i genitori che rispondono senza poter dare una risposta all’ennesimo: «E poi?». Standing ovation in chiusura con lunghi e interminabili applausi del pubblico con qualche lacrima. 

 2024 05 30 PdT Gramsci gay foto Angelo Maggio 73 07660 1
Gramsci Gay, regia Matteo Gatta. Foto Angelo Maggio

Occhialini e un vestito marron. Così appare Mauro Lamantia nei panni di Gramsci trentenne sul nudo palco del Teatro Vittoria con solo un gruppo di sedie alle sue spalle disposte a cinema. E come se in questa prima parte del lavoro Gramsci Gay di Iacopo Gardelli, con la regia essenziale di Matteo Gatta, Lamantia si rivolgesse non agli spettatori del Teatro ma ad una massa di operai in una piazza della Torino del 1920, in un intervento politico, quasi da comizio, riguardante l’insuccesso del cosiddetto sciopero delle lancette contro l’istituzione dell’ora legale. «Dove abbiamo sbagliato?» si chiede il fondatore del Partito Comunista Italiano. Ed ecco un elenco di motivi sulla differenza di classe tra operai e intellettuali, tra ricchi e poveri, sul Capitale di Marx, sull’Economia che non decide tutto e sulla Rivoluzione francese che è stato innanzitutto un evento culturale della volontà collettiva. È critico nei confronti del Manzoni che risolve ogni cosa con la divina provvidenza e non sapevo che Gramsci da ragazzino costruiva modellini di navi dopo aver letto Robinson Crusoe di Defoe. Non è vero che le donne non capiscono nulla e bisogna avere la coscienza che ognuno di noi è un filosofo, un poeta e altro ancora per cambiare il mondo e pensare ad una società più giusta non più basata sullo sfruttamento dei ricchi verso i poveri. Breve pausa. È passato un secolo. Qualcuno sale sul palco creando un monticello con quelle sedie di prima. Nella prima fila c’è un giovane in jeans e giubbotto (lo stesso Lamantia col ciuffo più evidente) che si rivolge a qualcuno in sale chiamandolo: “compare” con una serie di improperi verso chi vorrebbe trattenerlo in questura per aver vandalizzato un murales col volto di Gramsci, in bella vista sul muro del carcere di Turi (Bari), scrivendoci sulla fronte con la pittura rossa la parola “Gay”. Lo spettacolo, anche questo d’impegno civile, si conclude con una voce fuori campo che dice che il termine è stato cancellato e che il giovane non subirà alcuna condanna. 

 2024 05 30 PdT Play Baglioni Bellani foto Angelo Maggio 73 08758 1
Play di Carolina Baglioni. Foto Angelo MAggio

Era cominciato bene Play di Carolina Baglioni al Teatro Sybaris, lei stessa interprete d’una elegante e giovane donna che si reca per un provino nello studio d’un regista di cinema, il dinoccolato Annibale Pavone con giacchetta chiara e sigaro fumante in bocca. L’uomo se ne sta di spalle dietro una scrivania, guarda le foto di colei che ha davanti, le fa una serie di domande riguardanti il cinema e i registi che preferisce, non dicendo nulla sul suo film che appresso girerà. La donna risponde che ama i film del messicano Iñàrritu, in particolare Babel, incentrato su quattro diverse realtà e suoi sentimenti che possono unire o dividere. Sul boccascena è adagiato a mezza altezza un velatino, giusto per proiettarvi sopra le immagini della donna, ripresa da una telecamera manovrata dal regista che per sua volontà deve fingere di passare da una stanza all’altra e parlare di argomenti che riguardano la sua persona senza perdere il filo del discorso. E sino a questo punto la messinscena di Michelangelo Bellani non faceva una grinza e i due protagonisti erano credibili, pimpanti, in grado di tenere desto il pubblico in sala. Poi da quando viene tolto il velatino, i due rallentano i ritmi, i toni diventano morfeizzanti e molti spettatori s’addormentano sulla propria poltrona. Lo spettacolo va avanti creandosi tra i due interpreti quella classica situazione di chi sta sopra e chi sta sotto, esercitando lui una chiara violenza psicologica su di lei, che s’era preparata a quel provino imparando a memoria la cosiddetta Madeleine di Proust giusto per evocare il brano riguardante Dalla parte di Swann della Recherche, ben conscia che avrebbe potuto pure spogliarsi, mostrare le sue grazie, che a questo punto interessavano a quei pochi spettatori rimasti svegli sino alla fine, per sapere che quel regista prenderà la protagonista fra le tredici fanciulle che ancora dovrà provinare. 

2024 05 31 PdT Spezzata Pisano Gionfrida foto Angelo Maggio 73 09094
Spezzata. Rapsodia (per intercessione del Silenzio), regia Livia Gionfrida. Foto Angelo Maggio

Ancora un monologo al Teatro Vittoria, quello di Fabio Pisano, titolato Spezzata. Rapsodia (per intercessione del Silenzio) messo in scena dalla talentuosa Livia Gionfrida, che in questa occasione non dà il meglio di sé, interpretato da Mariangela Granelli nei panni di Lisa Montgomery, coinvolta in una storia realmente accaduta nello stato dell’Indiana nel 2004, allorquando questa donna con alle spalle una vita di violenze e di stupri, non solo da parte del patrigno e della madre, uccide una donna incinta di 23 anni, tagliandole la pancia con un coltello, estraendole il feto di otto mesi, portandoselo via come se a partorirlo fosse stata lei, lasciando poi morire la donna per dissanguamento. Naturalmente va in prigione, quattro anni dopo viene emessa la sentenza di morte e il 13 gennaio 2021 viene giustiziata con un’iniezione letale. A niente sono valsi gli appelli all’ex presidente Trump, anche da parte da un pool di psicologi che chiedevano la sospensione dell’esecuzione e fare curare in ospedali idonei questa donna definita “la più spezzata del mondo”. Nella prima parte dello spettacolo la Granelli indossa una tuta rossa da ergastolana e una pallina rossa da clown sul naso, più avanti la vedremo anche abiti femminili, aggirarsi svanita sul palco come una folle e il cervello in tilt, avvistando ora un pellerossa, ora un giocatore di baseball ora una donna che suona un tamburo, venendo sommersa a tratti da piume bianche che scendono dalla graticcia. Solo nel finale sappiamo la storia di questa sventurata donna morta a soli 52 anni. Peccato! Perché lo spettacolo non mi ha coinvolto, anche il pubblico mi è sembrato perplesso, tributandogli ugualmente molti applausi in chiusura. 

2024 05 31 PdT i desideri di santu martinu dario de luca foto Angelo Maggio 73 00289 2
I 4 desideri di Santu Martinu con Dario De Luca. Foto Angelo Maggio

Anche in quest’edizione del Festival di Castrovillari Dario De Luca è protagonista nello spazio del Capannone di un singolare spettacolo tratto da un canovaccio calabrese di cui non si conosce l’autore, divertendo il pubblico che lo subissa di applausi. Il testo recuperato s’intitola I 4 desideri di Santu Martinu, cui segue il sottotitolo Favolazzo osceno adatto ad essere recitato dopo i pasti che sembra quasi una parabola o una favola moraleggiante di tipo erotico, come quelle che poteva scrivere con spirito boccaccesco Domenico Piro, meglio conosciuto  come Duonnu Pantu, vissuto nella seconda metà del 1600 ad Aprigliano in provincia di Cosenza, o come quelle altre di Domenico Tempio, noto come Miciu Tempiu, originario di Catania e vissuto a cavallo del 1700/1800, definito il maggior poeta siciliano del suo tempo assieme a Giovanni Meli e bollato come poeta pornografico. Qui De Luca in abiti monacali, aureola in testa, cuffia bianca che gli copre le orecchie, con la grazia che lo caratterizza e in una lingua calabra arcaica tuttavia comprensibile, accompagnato dalle musiche arabeggianti di Gianfranco De Franco che utilizza vari strumenti musicali come il flauto traverso, il clarinetto, il sax e altri ancora, racconta d’un pecoraio devoto a San Martino e della di lui moglie sempre infoiata. Una sera dopo una cena abbondante innaffiata da una quantità eccesiva di vino, il villico non riesce a soddisfare la moglie perché s’addormenta pesantemente. Il giorno dopo mentre pascola il suo gregge, gli appare per miracolo San Martino che gli dice di esprimere quattro desideri che l’uomo mette subito in atto. Il primo è quello di avere tanti falli sempre funzionanti. Ed ecco ogni parte del suo corpo diventare una selva piena di mentule, belli per la moglie ma difficili da utilizzare, al punto che il poverino esprime subito il secondo desiderio perché quelle appendici trovino i corrispettivi sessi femminili. Ma come si può capire, il problema non si risolve tout court e allora il pecoraio esprime come terzo desiderio che quelle appendici scompaiano del tutto e subito dopo sia la moglie che il marito si ritrovano privi dei propri organi sessuali. Ecco infine far ricorso al quarto e ultimo desiderio perché tutto torni alla normalità, ad una felicità ritrovata dopo aver capito quella morale per cui “chi troppo vuole nulla stringe”.

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Quello che non c’è con Giulia Scotti. Foto Angelo Maggio

Ancora un monologo, questa volta ad opera della giovane Giulia Scotti alle prese con un suo testo titolato Quello che non c’è di cui è pure interprete e regista al Teatro Sybaris. Trattasi d’uno spettacolo ispirato alla sua famiglia, in particolare ad una sua zia, sorella del padre che non riesce a salvarla dalla morte.  La Scotti utilizza la forma fumetto per raccontare una storia, un po’ vera un po’ inventata, proiettando le strip di estrema semplicità su uno schermo. Un piccolo-intenso spettacolo raccontato con grazia, anche se non ti coinvolge più di tanto, ma che ad un tratto respiri aure surreali e ti sembra di compiere dei voli poetici come quelli che puoi trovare nel Piccolo Principe di Saint-Exupéry lì dove al posto d’una rosa rossa lei tiene in mano un carboncino per continuare a disegnare.    

Ultima modifica il Domenica, 09 Giugno 2024 18:19

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