mercoledì, 04 dicembre, 2024
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INTERVISTA A FAUSTO RUSSO ALESI - di Francesco Bettin

Fausto Russo Alesi Fausto Russo Alesi

Attore e regista di impronta solida, e di grande esperienza, Fausto Russo Alesi è un interprete che scava molto nei personaggi approfondendoli in maniera significativa e concreta. Si diploma alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Uno dei primi spettacoli da lui interpretati, Il gabbiano di Cechov, è diretto da Eimuntas Nekrosius, poi c’è il sodalizio con Luca Ronconi che lo dirige ne Il silenzio dei comunisti, Sogno di una notte di mezza estate, Santa Giovanna dei Macelli. E’ diretto inoltre da Serena Sinigaglia, Peter Stein, Valter Malosti, Damiano Michieletto, Gabriele Vacis. Inoltre mette in scena e dirige lui stesso alcuni spettacoli, come Natale in casa Cupiello, di Eduardo De Filippo, dove interpreta l’intera gamma dei personaggi con una straripante forza recitativa. Nel frattempo riceve tre premi Ubu. Anche nel cinema si distingue per le numerose partecipazioni a film diretti da Silvio Soldini, Roberto Andò, Mazzacurati, Segre, fino all’incontro con Marco Bellocchio, dal quale è diretto in diverse pellicole come Vincere, Esterno notte, Il traditore e nel curioso Se posso permettermi, capitolo I e II. In questi giorni è sugli schermi in Iddu, accanto a Elio Germano e Toni Servillo, con un’altra delle sue interpretazioni notevoli. A teatro è interprete e regista de L’arte della commedia di Eduardo De Filippo, che riprenderà a marzo 2025.

Iniziamo da Marco Bellocchio con cui hai molto lavorato in questi anni. Come vi siete trovati e cosa pensi del suo essere regista?
Credo sia una grande fortuna per un attore incontrare sul proprio percorso un regista come lui. Ci incontrammo la prima volta a Bobbio, durante uno dei corsi sul cinema che lui tiene, in estate. In quell’occasione mi chiese di partecipare a un cortometraggio che stava preparando con i suoi allievi, che sarebbe andato a finire dentro il film Sorelle mai. Un luogo, Bobbio, a lui molto caro, dove c’è stata la possibilità di fare questo lavoro con una grande energia. Vederlo in questa dimensione artigianale senza la pressione che si può avere in una produzione diciamo normale, ma con il solo piacere di girare, è stata una grande e bella occasione. 

Più tardi con lui girerai Vincere.
Sì, poco dopo mi chiamò per questo film, il primo effettivo con lui, e sicuramente il fatto di esserci conosciuti prima ha fatto sì che già da quella prima occasione ho sentito che mi veniva affidato un ruolo molto preciso, bello, all’interno di un film che è stato, ed è, magnifico. Interpretavo Riccardo Paicher, il cognato di Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno, ndr), un uomo che doveva reagire a quello che stava succedendo in Italia in quel momento storico, in qualche modo un antieroe. Un ruolo bellissimo, che aveva tanto di certi italiani che in qualche modo rimanevano sotto il regime, senza avere la forza di affrontarlo esponendosi, come la stessa Valser ha fatto, ad esempio,

Da lì in avanti una collaborazione praticamente continua o quasi con Bellocchio
Sì, ho avuto questa fortuna di fare parte di molti dei suoi progetti con personaggi veramente forti, diversi l’uno dall’altro, personaggi a volte complessi, con diverse ombre, a cui aderire soprattutto da un punto di vista interiore, intimo, non certo per somiglianze fisiche. Ogni volta è stata una nuova sfida. Durante questi anni con Bellocchio ci siamo sempre più conosciuti. Molti degli attori che si vedono nei suoi film ritornano nei successivi e questo racconta molto di quanto sia un regista straordinario, visionario e umanamente speciale, direi unico, che cerca profondità nei rapporti artistici, in maniera naturale. Film dopo film abbiamo lavorato sempre più con grande armonia, ed è una vera fortuna quella di aver incontrato un maestro che non solo ha fatto parte della storia del cinema in Italia ma continua a essere un grande artista che si mette in gioco, e si rinnova  in ogni progetto, si confronta in maniera sempre libera, antiretorica, onesta, mettendosi in discussione anche sulle stesse tematiche dei film. Tutto ciò per me sa di meraviglia, è un luogo di libertà artistica, di profondità e complessità e non è scontato, assolutamente. 

I tuoi anni giovanili di Palermo? Come mai andasti a Milano a studiare teatro?
Avevo bisogno di incontrare le scuole più all’avanguardia, per la mia formazione, di fare un grande passo, umano, personale e artistico. Non avevo fatto nulla di così importante a diciott’anni, era tutto un salto nel vuoto per me però per diversi motivi necessitavo di buttarmi verso qualcosa che stava altrove, non a Palermo. Ci ho provato, non era detto che le cose si sarebbero sviluppate come sono andate oggi, ma anche lo stesso fatto di entrare in una delle scuole più importanti d’Italia. Come il fatto di iniziare un percorso formativo, con insegnanti e colleghi che mi sono stati fondamentali, con una città, Milano, che mi ha offerto tantissimo, e di vedere un certo teatro in maniera costante, giornaliera, di incontrare i grandi maestri, vedere grandi spettacoli. Da lì è cominciato tutto per me. 

dal film Se posso permettermi capitolo 1
dal film "Se posso permettermi", capitolo 1

Come sentivi, e senti, l’attore come mestiere? 
E’ come tanti anche questo un lavoro complesso, faticoso, legato alla conoscenza di se stessi. E’ confrontarsi quotidianamente con l’esigenza profonda di riuscire a farlo, questo mestiere, di non poterne fare a meno, di costruire man mano la propria storia. Del resto sono sempre stato affascinato dal teatro, dalle interpretazioni dei grandi attori, e quelle volte che andavo a teatro fin da piccolo fecero breccia dentro di me. Poi credo che questo lavoro abbia a che fare con qualcosa di molto profondo dentro di noi. Se si ha qualcosa da raccontare, da conoscere su se stessi, da curare una ferita, anche,  non si  può fare a meno di farlo. Anche se non è detto che ci si riesca, ci sono artisti strepitosi che purtroppo non arrivano a lavorare quotidianamente perché è un lavoro che mette a dura prova, caratterialmente. Bisogna essere solidi, nonostante non sia certo la solidità che andiamo a raccontare, ma le crepe, la fragilità. E’ un lavoro straordinario, dove non si deve sentire mai il peso, un lavoro che prende a trecentosessanta gradi. 

Un po’ di follia fa parte dell’attore?
Senz’altro, bisogna sapere lavorare con la parte incosciente perché ci porta spesso in zone che sono comunque molto vicino a noi, e che vanno a togliere certe sovrastrutture che man mano che si va avanti e si cresce ci si mette sempre più addosso per tutelarsi, per stare più in una zona di conforto. E’ un lavoro che chiede di mettere in discussione tutto, che va a occuparsi dell’essere umano e a me piace potermi conoscere così. 

Ti riconosci come un attore trasformista?
Se per trasformismo s’intende una completa aderenza, una grande dedizione a quello che si fa, sì. Che vuol dire fare un viaggio dentro a un’umanità, un mondo che non necessariamente è il nostro dove per conoscerlo bisogna veramente buttarsi a capofitto dentro i personaggi, a più prospettive. Secondo me quando vogliamo comunicare dobbiamo farlo cercando di mettere un nostro bagaglio umano, esperienziale, però tutto deve andare al servizio di un personaggio, una regia, una sceneggiatura, non certo della nostra singola interpretazione e basta. Bisogna saper mettere da parte se stessi per entrare dentro qualcos’altro. Quando incontriamo un ruolo dobbiamo  farne una possibile interpretazione, che è un dialogo tra le varie cose, quello che sei, e che hai conosciuto di quel ruolo, del personaggio.

La voglia di ritornare a teatro c’è, i teatri sono pieni, ed è una gran bella cosa. Ma le giovani generazioni come le si conquista?
Non lo so, le sto conoscendo adesso e conoscere il loro mondo non è semplice, come invece probabilmente è stato per i nostri padri con noi. E’ anche frutto dei tempi, che sono differenti. Come far breccia in loro non lo saprei dire, ma quello che so è che quando loro si riconoscono, si emozionano, e sentono che quello di cui stai parlando è dentro la loro quotidianità, anche la grande letteratura, si interessano a ciò  in maniera più forte. Questa cosa li aiuta per come muoversi meglio nel mondo, per affrontare le difficoltà, accettarsi, sentirsi migliori. Ma vale per tutti, questo altrove, è ciò di cui abbiamo bisogno. E lì che riusciamo a sentire le nostre potenzialità, nella quotidianità è più difficile. Quando succede, e questa cosa ci muove diventa poesia, inizia un dialogo. Noi attori dobbiamo farlo avvenire. Se non si instaura questo dialogo è difficile conquistare gli spettatori, che siano giovani o no. Oggi poi c’è talmente tanta distrazione che è difficile mettere in pratica questo esercizio di concentrazione. Se qualcosa accade sia a teatro che al cinema e non è funambolico, fine a se stesso, va a scuotere, fa sentire partecipi, al di là di come vanno le cose in questo mondo. L’obiettivo nostro, da attori, è arrivare a smuovere qualcosa, e mettersi anche in discussione se non si riesce a farlo, trovando un nuovo modo. Si deve cercare la strada per dialogare, riuscire a passare amore, passione e non solo informazioni. Da giovani poi si ha bisogno di fare un giro di giostra, quindi leggere, vedere uno spettacolo dev’essere un viaggio entusiasmante, coinvolgente. 

Facciamo un appello per andare a teatro, al cinema a vedere i film e non sui tablet o sui telefonini, o pc?
Andare nelle sale è così bello, è un’esperienza stupenda. Credo che bisogna insistere su questo, riportare le giovani generazioni al cinema, a teatro, perché quando quell’esperienza la senti, la catturi, non si dimentica, resta addosso. E ho fiducia che continuerà ad accadere. 

Lo stato del teatro come lo vedi?
La pandemia ha fatto sì che molte realtà chiudessero, e oggi è sempre più faticoso per il teatro indipendente, per i teatri piccoli. C’è una legge che impedisce che in qualche modo gli spettacoli possano girare per tanto tempo, ma il teatro si fa nella ripetizione. Ormai molti spettacoli muoiono prima ancora di iniziare, hanno una vita brevissima e questo non è pensabile. E’ fondamentale invece, appunto, farli girare, anche per farli crescere e portarli dove altrimenti non sarebbero proprio visti, e qui purtroppo le realtà si dividono in due, dove c’è tanto e dove non c’è nulla. Detto questo lo stato teatrale è positivo, nel senso che il pubblico non smette di riconoscerne il suo valore e la sua unicità. Credo però che sia molto importante non negare voce e ascolto agli artisti. Spesso, come dice Eduardo, hai  la sensazione di essere estraneo in casa proprio in quel mondo che hai deciso di abitare e a cui dedichi tutta la tua esperienza e le tue energie. La politica deve sostenere e non può, non deve togliere spazio alla conoscenza, alla libertà e alla visione autentica di un artista: il problema della censura o peggio ancora dell’autocensura potrebbe essere dietro l’angolo. 

da Larte della commedia foto di Anna Camerlingo
da "L'arte della commedia". foto Anna Camerlingo

Qualche esperienza o spettacolo che ricordi con piacere?
A parte il cinema, che amo fare, a teatro ci sono opere alle quali ho partecipato e a cui sono profondamente legato come Padri e figli, di Ivan Turgenev, adattato con Fausto Malcovati e nato al Centro Teatrale Santa Cristina di Luca Ronconi, e l’ultimissimo Ifigenia in Aulide, monito contro l’orrore di tutte le guerre, adattato insieme a Letizia Russo nell’ambito del progetto Bottega XNL-Fare Teatro. 

A marzo 2025 riprenderai L’arte della commedia, di Eduardo De Filippo…
Sarà il terzo anno, riporterò in scena le sue potentissime parole scritte sessant’anni fa e che purtroppo sembrano scritte oggi. E’ una grande riflessione sul mondo del teatro e sull’arte in generale, sul suo ruolo e sulla sua utilità sociale. Un grande testo politico sul nostro rapporto con il potere e sul bisogno di ogni cittadino di essere ascoltato e riconosciuto nei suoi diritti umani e professionali.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Venerdì, 01 Novembre 2024 13:50

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