mercoledì, 04 dicembre, 2024
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“IL MIO CANTO LIBERO” - In occasione della giornata mondiale della salute  mentale. -di Valeria Ottolenghi

“Questa è la mia vita”, Sandra Soncini “Questa è la mia vita”, Sandra Soncini

“IL MIO CANTO LIBERO”
In occasione della giornata mondiale della salute  mentale

“Non so/ stare”
studio di teatro danza
di/ con Elisa Cuppini
regia di Carlo Ferrari
produzione L.O.F.T.
Visto a Parma all’APE Parma Museo l’11 ottobre

“Tutti i segni di una manifesta pazzia”
drammaturgia e regia di Franca Tragni e Franca Tragni
con Franca Tragni
musiche di Patrizia Mattioli
tecnica e luci di Erika Borelli
produzione Progetti&Teatro
Visto Parma all’APE Parma Museo l’11 ottobre 

“Un mese esatto - viaggio nella pianura”
Tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni
di/ con Carlo Ferrari
tecnica luci di Erika Borelli
produzione Progetti&Teatro
Visto Parma all’APE Parma Museo il 12 ottobre

“Questa è la mia vita”
con Sandra Soncini
drammaturgia di Sandra Soncini e Carlo Ferrari
musiche di Patrizia Mattioli
tecnica luci di Erika Borelli
regia di Carlo Ferrari
Visto Parma all’APE Parma Museo il 13 ottobre 2024

Teatro e salute mentale: con L.O.F.T. e Progetti&Teatro spettacoli di pensiero e molte emozioni
A Parma con “Il mio canto libero” negli eleganti, articolati spazi di Ape/Monteparma
Bravissimi Carlo Ferrari, Franca Tragni, Sandra Soncini, Elisa Cuppini
 

“Visioni di futuro…”: questo il titolo dell’incontro conclusivo di <Il mio canto libero>, la densa, coinvolgente rassegna teatrale con mostra e incontri di riflessione dedicata alla salute mentale, tre fitte giornate ideate e organizzate da Progetti&Teatro in collaborazione con L.O.F.T., Libera Organizzazione Forme Teatrali, negli eleganti, preziosi spazi di Ape Museo/Monteparma, diversi i momenti di intensa commozione. E proprio sul coinvolgimento emozionale lo psichiatra Valerio Giannattasio ha voluto aprire l’ultimo confronto, al tavolo anche Franca Tragni e Sandra  Soncini, magnifiche interpreti, guidate alla regia da Carlo Ferrari, con Sandra che aveva appena concluso l’arduo, accurato monologo “Questa è la mia vita”.

Se gli spettacoli hanno saputo restituire in modi densi e stilizzati a un tempo lo smarrimento di sé nell’istituzione manicomiale, il disagio psichico, rielaborazioni in forma d’arte di dolenti esperienze di destabilizzazione, “Il mio canto libero” ha anche reso possibile l’incontro con alcuni esiti laboratoriali che hanno dimostrato, ancora una volta, come il teatro possa favorire l’espressione di sé all’interno di un gruppo, con la crescita dell’autostima al singolare e al plurale, sempre nella relazione. E’ con la sensibilità dell’alta competenza che sa offrire giusti stimoli che Carlo Ferrari e Franca Tragni hanno realizzato, con persone in cura ai servizi per la salute mentale, “Guarda il mio sguardo”: nella sala Amedeo Bocchi di fianco all’ingresso ciascuno ha scelto un proprio quadro su cui scrivere propri pensieri. Nel momento dell’incontro con il pubblico gli interpreti hanno quindi ripetuto, muovendosi in quello spazio raffinato, attorniati dalle opere esposte e dagli spettatori, alcune frasi sul vedere/ essere visti, evocando stati d’animo legati a quella difficile reciprocità, sguardi che preoccupano, stupiscono, disturbano. Una meta complessa raggiunta infine con semplicità - e con piacere, orgoglio. E le brevi narrazioni nascondevano/ svelavano vari  stati d’animo, alcuni davvero sorprendenti. Una immensa gioia quindi gli applausi, calorosi, commossi.

L’APE,  acronimo di Arti, Performance, Eventi, è un importante riferimento culturale per Parma: ideato e realizzato da Fondazione Monteparma in un prestigioso palazzo nel cuore della città, è in grado di ospitare, oltre alle collezioni permanenti, anche più mostre contemporaneamente, gli spazi espositivi luminosi, articolati, disposti su più piani. Di grande pregio, una bellezza di pensiero, l’auditorio, lì dove hanno avuto luogo anche gli incontri di “Il mio canto libero”, a partire dal primo giorno per “Salute mentale oggi”, con gli interventi, stimolati anche dalle domande di Marco Balestrazzi, dello psichiatra Pietro Pellegrini e il sociologo Luca Negrogno, citati più volte, inevitabilmente, Franco Basaglia, ricordato un po’ ovunque, trascorsi i cento anni dalla nascita, e Mario Tommasini che, con il suo tenace impegno, aveva contribuito alla diffusione della presa di coscienza di cosa fossero i manicomi, favorendo quindi la realizzazione di alcune soluzioni agibili per chi, uscito dall’internamento, trovava difficoltà a inserirsi in forma libera in una società da cui era stato allontanato spesso per lunghi decenni. Basaglia lavorava all’università di Parma e, con Tommasini, ha partecipato, con fondamentali contributi teorici e la disponibilità a far parte di un movimento collettivo, alla chiusura del manicomio di Colorno, distante pochi chilometri dalla città. Ma le fragilità esistono, debolezze che possono anche svilupparsi nel tempo. Malgrado tanto sia cambiato, si rileva, ancora diffuso in varie forme che isolano dolorosamente, lo stigma, il pregiudizio verso la malattia mentale. Fondamentale la risposta del territorio, in termini istituzionali ma anche di relazione, nei quartieri, all’interno di gruppi di supporto. Vitale l’espressione  artistica come strumento d’espressione, come motivazione psicologica, per la conquista di autostima e sicurezza. E la rassegna “Il mio canto libero” si è aperta con “Dipingo”, la mostra di alcune persone fragili che, nell’impegno a vivere e a trovare una propria funzione nel mondo (difficile per tutti, per qualcuno anche molto di più) si sono appassionate alla pittura. Anche qui si è apprezzato moltissimo l’impegno di chi lavora all’Ape: l’esposizione, di piccole dimensioni, è stata disposta in modo accurato, pregevole, facilitando la scoperta dei lavori particolarmente ricchi di ricerca sul piano stilistico-emotivo. Ancora più importante il teatro che mette in gioco il rapporto con gli altri, facilita la conoscenza, l’esercizio dei movimenti nello spazio, crea comunità nel bisogno di portare a termine un progetto comune: questo è stato riconosciuto da tutti coloro che sono intervenuti per riflettere sulla salute mentale durante l’incontro d’apertura e nel dialogo conclusivo.

Franca Tragni manifesta pazzia
Franca Tragni

“In un mondo che/ prigioniero è/ respiriamo liberi/ io e te/ e la verità/ si offre nuda a noi…”: le parole di Lucio Battisti di “Il mio canto libero” creano strani echi e rimbalzi durante gli incontri all’Ape Museo, che ha reso disponibile la trasformazione di diversi spazi per laboratori e spettacoli. La prima sera, per  il monologo “Tutti i segni di una manifesta pazzia”, unica protagonista Franca Tragni, assai stimata e amata, i posti subito esauriti, la pedana era solo a un passo dal pubblico, particolarmente ardua quindi la recitazione, ma anche di maggiore forza coinvolgente, il titolo lo stesso dello studio, pubblicato da Franco Angeli, su “dinamiche di internamento femminile nel manicomio di Colorno (1880-1915)” di Stefania Re che, presente in sala, ha espresso la sua riconoscenza nei confronti di Progetti&Teatro, di chi riusciva a dare nuovamente voce a quelle figure che lei aveva incontrato nella sua ricerca, donne spesso segregate per un nonnulla e dimenticate presto da parenti e amici, sentita facilmente come una “vergogna” avere qualcuno della propria famiglia internato. La Tragni - che firma con Carlo Ferrari testo e regia, musiche di Patrizia Mattioli - presenta, spiega, ma anche si identifica con Firmina o Corinna o Luigia, ironizzando a tratti con quei geni, come Darwin o Rousseau, che poco davvero consideravano le donne. Solo poche sedie in scena, che al termine finiranno per rappresentare quelle creature infelici che hanno consumato prigioniere le loro esistenze:  si colpevolizza Firmina scrivendo al marito “con le lacrime agli occhi” pensando a quel male, la sua testa rotta senza che se ne sia accorta, ricoverata per “psicosi cronica primitiva”. Lei non capisce, si tormenta, promette che non avrebbe fatto più nulla che potesse arrecare dispiacere a lui, alla sua famiglia. Ci sono anche le parole di Alda Merini: il marito aveva chiamato l’ambulanza, “non prevedendo certo che mi avrebbero portato in manicomio”. Così accadeva: “se eri considerata difettosa, stramba, originale, stravagante, eccentrica…”, una volta che eri internata, difficile uscire anche perché si creava intorno un alone di sospetto, fors’anche di paura. Questo accade anche ora, il paziente psichiatrico visto come pericoloso. Corinna viene ricoverata per “monomania intellettiva”, Luigia per “frenosi erotica”. Diffusa la diagnosi di isteria. Ci sono anche Italia, Maria, Evelina, Celeste…tra le valutazioni di tanta “manifesta pazzia” la malinconia - precoce o grave - la lipemania (una forma di depressione, termine che non si usa più) o il delirio clamoroso. La Tragni spiega, s’interroga, è l’una o l’altra. Al termine l’ascolto, da voce registrata, della poesia di Giulio Carcano “Angiola Maria”: quanto resta è solo la speranza, “ecco miei signori tutto ciò che mi avanza/ da far presto di qui uscir, perché temo di morir”. Uno spettacolo intenso, capace di commuovere: lunghissimi gli applausi.

Elisa cuppini Non so stare
Elisa Cuppini, Non so stare

In un diverso spazio ancora, attraversando anche aree riservate a mostre, nel pomeriggio del primo giorno Elisa Cuppini ha presentato lo studio “Non so stare”, regia di Carlo Ferrari, produzione L.O.F.T., dagli affascinanti echi metateatrali intrecciati a numerose suggestioni da “Giorni Felici” di Beckett, il tutto in un linguaggio intensamente fisico, proprio del teatro danza, gli smarrimenti tradotti in gesti, movimenti, cadute.  “E’ qui che devo stare?”. Sembra che fuori piova. Ha un ombrello. Spesso le labbra si muovono senza parole, senza suoni. Vorrebbe conferme: presto si intuisce che probabilmente deve fare un esame. Forse un provino teatrale? Si avverte l’insicurezza. Ha una borsa dentro cui fruga estraendone anche un copione. A tratti un suono di campanello, un richiamo, anche quello indefinito. Persona e personaggio sembrano sovrapporsi in modo inquietante. “Mi sono preparata su Beckett. Comprese le didascalie. A memoria”, battute che ripeterà più volte, come preghiera, come forma di rassicurazione. Disagio, impaccio, titubanza, ma questi stati d’animo sono trasmessi in modo rigoroso, stilizzato. Cade più volte, “un mancamento…”, ogni volta si riprende, cercando di instaurare un dialogo - assente - con qualcuno, qualcosa che c’è al di là del pubblico, nel buio. E’ tempo di cominciare. Ma cosa? Si fa ancora più esplicita l’identificazione con Winnie di “Giorni felici” quando tira fuori spazzolino e dentifricio, e le parole, di per sé forse irrilevanti, servono per andare avanti. In quale direzione? “Cosa mi fa decidere?, la politica?, l’amore?…”. Una figura femminile nella condizione del naufrago che cerca di appigliarsi a qualcosa - e se crolla non importa: è quella solo una pausa, una sosta. Un intervallo: come a teatro? Già: se lei è un’attrice la sua esistenza dipende da altri, da chi decide di uscire di casa, salire in macchina, prendere il biglietto…L’indeterminatezza cresce. Nessuno risponde, l’aiuta. Bisogna lottare anche con l’intonazione. Angoscia e ironia insieme per le difficoltà del metodo, la varietà dei modelli della scena, tra immedesimazione, avanguardia, tradizione, tra “metafisico e metaforico”. E: basta volere per restare in piedi? Emozionante l’ultima parte dove illusioni, delusioni, sconforto e, insieme, il desiderio di vivere/ sopravvivere, lottare, si traduce in un eccellente brano di teatro danza. Il debutto di “Non so stare” al Teatro del Tempo, Parma, a primavera.

Carlo Ferrari un mese esatto
Carlo Ferrari, Un mese esatto

“Io come persona non sto tanto bene…”: è questa la prima battuta di Carlo Ferrari nel ruolo di Salvini (forse: anche l’identità è incerta) nello spettacolo “Un mese esatto. Viaggio nella pianura”, tratto da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni - e in effetti lo sguardo è sperduto, turbato, tra malesseri indefiniti, bravissimo l’interprete, unico protagonista in scena, responsabile anche di drammaturgia e regia, nel mantenere lo sguardo con un fondo di vuoto anche quando mostra di concentrarsi, di farsi attento, volendo cercare di ricordare, di capire. E’ attratto dalla luna quel personaggio che sente le voci in testa, messo lì (dove? non si sa) per riposare, perché possa mettere ordine ai tanti racconti ascoltati che continuano a confonderlo. Facendosi domande di carattere metafisico che facilmente precipitano in altre, buffe, surreali, quasi alla Woody Allen: “Chi sono io? E negli scarichi c’è l’inferno?”. Dilatata, esorbitante, la descrizione dei viaggi nei tubi della città da parte del signor Pigafetta, almeno così come lui ricorda, tra le acque bianche e quelle nere. Si ride durante “Un mese esatto” - tecnica luci Erika Borella, produzione Progetti&Teatro - ma sempre con un senso di rispetto per quella creatura fragile che cerca un senso in quel mondo davvero difficile. Carlo Ferrari parla a figure assenti tra sconcerto e desiderio di spiegare. Sembra che qualcuno l’abbia preso per l’ispettore della bonifica. E lui ha fatto dei controlli. E gli hanno offerto vino rosso. E c’era la musica - e si ballava. E in più passaggi i movimenti si fanno coreografici, di una leggerezza, di un abbandono commoventi. Il “mese esatto”, forse però con qualche giorno in più o in meno, è il tempo del suo viaggio, un intero ciclo lunare. Il linguaggio è popolare ma di una colta raffinatezza letteraria. I piedi si sono gonfiati, ma la raccomandazione è di far riposare la testa, di dormire “due o tre giorni di fila”. Torna però la visione della luna ad agitarlo, ma anche a divertirlo immaginando che potesse scendere a terra per illuminargli la strada. Esilarante la storia della “vaporiera”, moglie di Nestore, esaurito a causa di quelle continue richieste, “obbligato a farlo anche nel pomeriggio”. L’acqua, i pozzi sono motivi che tornano, insieme, ancora e sempre, alla luna, presenza malinconica, ma anche fantastica, come quella di Ariosto dove poter andare, forse, a recuperare il senno…Molte emozioni e tanti, tanti applausi.

Ed è reale esperienza manicomiale vissuta quella di Adalgisa Conti, di Anghiari, internata nel 1913 a ventisei anni nell’ospedale psichiatrico di Arezzo, morta a novantacinque in quello stesso istituto. Così soffocata la sua lunga intera esistenza. Lo spettacolo “Questa è la mia vita”, unica protagonista, concentrata in un quieto riflettere, un’intima tensione, è Sandra Soncini, come sempre magnifica nell’assorbire anche con il corpo, le posture, gli sguardi, i personaggi che affronta. “Un ricovero con violenza”, si legge in una testimonianza, come diagnosi “delirio di persecuzione tendente al suicidio”: oggi si penserebbe probabilmente a una sorta di depressione motivata in particolare dai tradimenti del marito. Sollecitata dal medico la donna aveva scritto una sorta di diario, che verrà poi pubblicato, “Gentilissimo Sig. Dottore, questa è la mia vita”, da cui è stato tratto il testo teatrale, adattamento drammaturgico della stessa interprete insieme a Carlo  Ferrari, che firma anche la regia, musiche di Patrizia Mattioli, tecnica e luci di Erika Borella, produzione L.O.F.T. e Progetti&Teatro: racconta con la massima sincerità possibile la donna, riconoscendo anche i suo desideri sessuali. “Sono di carattere volubile e abbastanza sudicia, faccio come una banderuola messa  in cima a un campanile…”. Sandra Soncini compie piccoli spostamenti, come si trovasse in uno spazio  ristretto. La sua recitazione è limpida, sta scrivendo/ parlando come Adalgisa con la speranza di essere capita, aiutata. Una voce registrata informa con brevi frasi, tratte dalle cartelle cliniche: “carattere sensibile, impressionabile…gelosissima…soffriva d’insonnia, anemica sin da giovinetta”. La donna ricoverata si analizza, si sente in colpa secondo la mentalità di allora, lei “viziosa da masturbare”. Indossa uno smunto vestitino, i capelli raccolti, che diventano anche una sorta di passatempo. Lei aveva iniziato a lavorare giovanissima. I toni mutano, le mani nervose. Tremori. Sembra di cogliere il desiderio di punirsi. “Un uomo mi fece le porcherie, ma anch’io ero consapevole”. E: “sono una donna deplorevole, una donna da non meritarmi alcun rispetto”. Avrebbe raccontato ancora: bastava che il medico chiedesse. Scrive anche alla madre, si sente confusa, soffre nell’essere sempre costretta a letto. Vorrebbe uscire, avere almeno una camera tutta per sé. Ancora cerca ricordi della sua vita: il matrimonio, la prima notte, lei “poco soddisfatta” e forse anche lui. E anche se il marito sta spesso fuori casa, frequenta altre donne, la “cattiva” è lei…Molte emozioni in sala. No: Adalgisa Conti non sarà ascoltata, compresa come aveva sperato. E presto si sarebbe chiusa nel suo silenzio per tutti quei lunghi, lunghissimi anni. 

Tutte  creazioni ad altissimo livello con Franca Tragni (“Tutti segni di una manifesta pazzia”), Elisa Cuppini (“Non so stare”), Carlo Ferrari (“Un mese esatto. Viaggio nella pianura”) e Sandra Soncini (“Questa è la mia vita”), curati gli sguardi, i gesti, a tratti quasi delle coreografie, sempre tanto pubblico all’Ape Museo per le giornate dedicate alla salute mentale “Il mio canto libero”.

Durante l’incontro conclusivo tutti d’accordo sull’importanza della relazione, della comunità, degli aiuti reciproci, con l’intervento anche di Massimo Fabi, direttore generale dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma, sul grande valore di quella manifestazione, magari da ripetere proprio all’Ape Museo, sottolineata l’importanza di quegli spazi di bellezza, rimasta però infine in sospeso la domanda posta da Carlo Ferrari: cosa rispondere a chi, dopo aver partecipato al laboratorio, stava chiedendo di poter continuare a fare teatro? Non bisognerebbe andare oltre l’esperienza occasionale, momentanea? Ma positivo, stimolante, durante tutte le tre giornate, il desiderio di sinergia, reciproca la fiducia tra il mondo della psichiatria e della scena.

Valeria Ottolenghi

Ultima modifica il Domenica, 17 Novembre 2024 13:05

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