Attrice, regista e autrice rigorosa e sempre impegnata in progetti artistici raffinati, consistenti, dove si evidenzia l’amore per il lavoro che fa, Federica Rosellini è soprattutto da quest’anno un’ottima protagonista al cinema, avendo interpretato (dopo altri lavori negli anni precedenti) due pellicole di successo e di notevole impegno, come Confidenza di Daniele Luchetti e Campo di battaglia, di Gianni Amelio. Il suo percorso inizia con la musica, con Elisabetta Maschio, con il violino e come cantante solista, ed è parte integrante di tutto quello che nel corso dei suoi anni ha fatto. Un cammino d’arte di grande qualità, tanto da renderla oggi una delle attrici sicuramente più brave e sensibili, con un ottimo lavoro anche drammaturgico. Diplomata al Piccolo Teatro, con la direzione di Luca Ronconi è proprio con lui che inizia e parallelamente comincia anche a recitare nel cinema, già protagonista ne Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini. A teatro lavora con Ronconi, Antonio Latella, Federico Tiezzi, Michele Riondino, Andrea De Rosa, e pubblica, come autrice, Carne blu. Come regista e sceneggiatrice realizza (tra gli altri) molti lavori, tra cui Kiss from baby doll, Ivan e i cani, lo stesso Carne blu e Veronica. Da poco è stata protagonista al 77.mo Ciclo dei Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, in Elettra, di Hugo Von Hofmannsthal, con la regia di Serena Sinigaglia.
Prima volta al Teatro Olimpico di Vicenza, vero? Qualche sensazione particolare?
Si’, è la mia primissima volta all’Olimpico, non ci avevo mai recitato prima, l’avevo visto solo da visitatrice museale. E’ davvero un logo magico che restituisce agli spettacoli che vi passano un’atmosfera particolare. Personalmente, poche volte mi è capitato di pensare di fare uno spettacolo non solo per il pubblico, ma anche per il Teatro, e qui è successo, con una sensazione fortissima.
L’incontro con il personaggio di Elettra com’è stato?
Lo definirei interessante, avevo una certa difficoltà a pensare questa sua ossessione per il paterno, per me un argomento delicato, difficile. E’ stato un vero viaggio entrare dentro il suo personaggio, ed è sempre interessante che succeda soprattutto quando questi sono lontani da noi. Questa Elettra poi è diversa dalle altre, è molto intrisa dello spirito di primo Novecento, della Vienna di quel particolare momento storico, è un’ Elettra che parla di Freud, di Schiele, di Kokoschka, per non parlare delle figure femminili, anche se come al solito vengono ricordate poco. E’ stato interessante cercarla, entrare dentro gli anfratti di questo onirico nero, rompere un corpo al limite tra i morti e i vivi, nella sua bestialità di restare in piedi. Una canitudine, anzi una lupitudine, la sua, di un personaggio selvaggio e fragilissimo.
Federica Rosellini. Foto Serena Serrani
Qualcuno potrebbe giustificare la sua rabbia, il suo odio?
Secondo me la vendetta non è mai giustificabile. Il desiderio di giustizia invece sì. Il suo è un sistema che chiama il sangue, risponde a morte con morte e in un tempo contemporaneo credo sia esecrabile, anche se è vero che ci troviamo molto spesso in situazioni di questo genere, il nostro contemporaneo lo racconta. Nonostante non sia certo un sistema giusto lo vediamo accadere, quindi il teatro dev’essere come sempre specchio del contemporaneo, invitandoci a riflettere su ciò che accade continuamente in questi giorni che sono di guerra, di sterminio.
Il teatro quindi può sempre dare un messaggio di speranza, invitando alla riflessione? Una speranza nuova?
Una parte di noi che fa questo mestiere certamente si augura che il teatro possa in qualche modo cambiare le cose, lavorare sulla coscienza di chi guarda perché muove pensieri, risoluzioni, desideri di cambiamento. Credo che il teatro sia arricchimento in quanto cultura, e progresso, quello sano naturalmente, non quello positivista che ha mangiato il mondo. Un progresso che porta gli esseri umani a entrare in contatto con loro stessi, con i loro limiti e con il rapporto con il mondo.
Tormentata, cinica, vittima: ma Elettra chi è veramente?
Sono sempre restia a semplificare, chiunque conosce il mio lavoro sa che io sono per la moltiplicazione. In fondo non so chi sia Elettra, la cosa bella dei personaggi è che hanno sempre dei luoghi di mistero dentro di loro che non riusciamo del tutto ad afferrare. Sicuramente c’è una parte di lupa ferita, e in lei c’è il fantasma di una società patriarcale, tutta per i padri. Se analizziamo quello che è stato l’Orestea per Eschilo, tutta la trilogia delle Coefore racconta la rivolta del matriarcato per tentare di contrastarlo, al contrario di Athena che sancisce quel sistema. Elettra è come Athena, la donna del padre, ed è particolarmente interessante questo aspetto, perchè non lo conosce nemmeno. Stiamo parlando dunque di ossessioni fantasmatiche, più che di un dolore e di un’idea reale che le è stata strappata.
Noi umani siamo destinati a covare sempre rabbia, odio? Saremo sempre così?
Io non credo che sia il destino dell’uomo, ma che questa cosa sia proprio legata fortemente a una società di stampo patriarcale, mentre ci sono studi che raccontano che nella storia siamo stati anche meglio, che non sempre il vivere nei secoli si è basato sulle dinamiche di potere, delle guerre. L’archeologi ad esempio lo dice chiaramente, c’è stato un tempo in cui eravamo coltivatori e il sistema non era così piramidale ma più democratico, e molto spesso erano le donne a tenere i fili della società. Come dice Hofmannsthal, il desiderio di vendetta, esserne prosciugati da essa porta inevitabilmente alla morte, e di questo dovremmo ricordarci nei nostri giorni. Infatti nessun altro tragediografo fa morire Elettra.
Veniamo a te come attrice, autrice, regista: il tuo percorso è sempre molto mirato, rigoroso. Cosa significa essere attrice oggi?
Trovo che attrice e autrice sono due ruoli che sono molto legati e credo sia molto importante in questo momento storico in cui il teatro di regia, di uno stampo Novecentesco, diciamo, è mutato. Gli attori sono scelti dai registi per i loro mondi che portano, per la loro autorialità nell’attorialità e i lavori inscenati, anche se diretti da un regista, diventano sempre più comunitari. Per me, almeno, essere attrice è anche essere autrice, è mettere la modalità del mio studio a servizio di un progetto collettivo.
Ci sono registi, diciamo, di vecchio stampo che questa cosa la accettano con fatica?
Adesso c’è una grande apertura in questo senso, credo del resto sia una ricchezza. Un attore lo si sceglie non solo per quello che sa fare ma per quello che è.
Tutti ruoli che convivono dunque molto bene in te…
Sì, per me è sempre stato tutto consequenziale, un fluire di materiali, contiguo. Penso ad esempio che anche alcune cose della danza si capiscano cantando, altre cose del canto si mettano a fuoco disegnando, è sempre stato per me un unico magma che si muove, quello chiamato creatività. Che è un modo di comunicare ciò che ci muove, ciò che è l’anima individuale e collettiva.
Sinonimo di curiosità?
Assolutamente, io sono molto curiosa e apprezzo molto il coraggio, in questo lavoro credo sia una virtù importante. Quando sai di non saper fare bene qualcosa ma ci provi è sempre un momento di evoluzione, secondo me. Perché soprattutto se le cose cominciano ad andare bene e si sta in stallo si rischia la stasi, e da lì la decomposizione. Bisogna sempre ricrearsi in qualche modo, essere in movimento evolutivo e avere l’umiltà di sapere quali sono i propri limiti, ma di volere imparare qualcosa di nuovo. Le barriere non mi sono mai piaciute in nessun campo.
Ti sei diplomata alla scuola del Piccolo Teatro, allora diretta da Luca Ronconi. Quanto serve una formazione tecnica?
Credo sia sempre compito del soggetto che riceve gli insegnamenti assimilare, imparando tutto ciò che si deve imparare. ll teatro è un’infinità di mondi possibili, l’importante è non pensare mai che la strada sia una sola ma rimanere vigili e curiosi, come dicevo prima, aperti a tutto ciò che circola intorno a noi. Continuare a imparare, questo è importantissimo, sempre, anche dopo mille lavori fatti. Ogni visione differente serve, si eredita qualcosa e qualcosa si lascia andare. La formazione del proprio sentire teatrale è veramente il prodotto di sguardi alla Giano, diametralmente opposti.
Hai mai guardato a qualche attrice con grande ammirazione, qualcuna ti ha mai ispirata, o è stata una tua passione pura, grande?
Sì, è un’attrice che è mancata a maggio di quest’anno, Franca Nuti. E’ stata una mia insegnante alla scuola teatrale, un mio modello per tanti aspetti. Dal fascino androgino, era di un’eleganza culturale incredibile, con grande intelligenza. Aveva una scioltezza molto contemporanea nel portare la parola. Anche come insegnante è stata meravigliosa, con una grazia, una capacità di ascolto rara.
Il talento è sempre premiato, Federica? O qualcuno non ce la fa, pur avendolo?
Domanda interessante: penso che il talento dove c’è, esce, ma la cosa più importante e fondamentale nel nostro lavoro è che, oltre a quello bisogna avere la determinazione. Il fatto di essere affidabili, attenti, costanti. Ho visto dei talenti meravigliosi perdersi per strada…Come diceva un’altra mia insegnante, Claudia Giannotti, bisogna avere i nervi. La capacità di restare, nonostante le difficoltà. Vigili e umili, sempre, affidabili. E studiare, naturalmente. Tutto questo premia. Il talento da solo non basta, bisogna applicarsi.
Francesco Bettin