Il regno profondo
Perché sei qui?
Lettura drammatica
scritto da Claudia Castellucci
regia vocale di Chiara Guidi
interpretato da Claudia Castellucci e Chiara Guidi
musiche: Scott Gibbons, Giuseppe Ielasi
direttore tecnico: Eugenio Resta
fonico: Andrea Scardovi
organizzazione: Elena De Pascale e Stefania Lora
produzione: Societas
Lenz Teatro | Sala Majakovskij | Parma
Festival Natura Dèi Teatri
Visto il 3 luglio 2018
Due donne entrano in scena camminando insieme, felpate, un ritmo binario respira loro nel passo e l'una all'altra affiancate si portano su una pedana che è palco e ring, sagomata dalla luce che spiove dall'alto – come accade di vedere negli incontri di boxe – verticale, senz'ombre, ultima. Chi sono quelle due? Perché sono qui? Si direbbero sorelle, vestite con identici tailleur a quadri di antica foggia, gonna al polpaccio, scarpe a mezzo tacco, i capelli bianchi a crocchia, una voluta caratteristica senile nel gestire e muoversi, tra scatto e ritardo, ma con naturalezza, senza sovrastrutture recitative. "Perché sei qui" è il sottotitolo della lettura drammatica, ed è la prima battuta che le sentiamo proferire. Un testo cui il perfetto unisono perseguito nella pronuncia doppia e l'andamento musicale che Chiara Guidi gli imprime generano, durante la prima parte, una specie di senso di vertigine, per un'attitudine continua del "dire" a scivolare nel canto monodico, e del canto a rientrare in un disegno vocale, un parlato, severo e insieme giocoso, che procede per iterazioni, elevazioni e abbassamenti di tono, per scarti leggeri di intervallo, per pause, nelle quali il silenzio fluisce sotto forma di bordone, di colpi lontani, un continuum musicale elettronico (opera di Scott Gibbons e Giuseppe Ielasi) che sta appena sopra la soglia dell'udibilità ma marca decisamente il paesaggio sonoro dello spettacolo, e che rimanda gli echi di spazi profondi, inviolati, da cui tutto sembra procedere – è questo il "regno profondo"? Nel testo par di cogliere una chiamata in causa della divinità, a un certo punto, anche se non nominata; l'eterno arrovellarsi intorno al problema del libero arbitrio. Sarebbe tutto molto filosofico, se non fosse che c'è un lavorio continuo di corrosione ironica, di contrasti. Lo stesso ring, pur privo di corde, che solitamente richiama muscolature virili e zuffa, qui ospita due esili figure vedovili, che affidano ai microfoni il loro delirio dichiarativo. Il canto-dizione congiunto procede per inflessioni che richiamano un ambito dialettale indefinito. Non è riconoscibile la regione cui quel parlato rimanda, ma nelle sue esagerate aperture vocaliche sembra alludere a un certo profondo e immutabile fondo roccioso dell'essere, quello che non cambia mai da sempre, da secoli. In un'intervista, a cura di Michele Pascarella, la Castellucci parla di "un linguaggio regredito a una condizione medievale della vita per cui non si va oltre il proprio retaggio, il proprio borgo". D'altra parte, c'è un continuo straniamento nel registro comico, specie nella seconda parte, dove il monodico evolvere della partitura si spezza in un dialogo in cui le due figure sembrano uscire dall'algida impostazione iniziale per rompere le righe della propria posizione sul palco, coricare a terra le aste dei microfoni, entrare in una modalità di rapporto, con la partner e con lo spazio, più quotidiana. C'è un raggiungere, da parte della Guidi, la posizione della metaspettatrice: due sedie alla base del palco, su cui prende posto, e una sigaretta accesa. Ma l'unisono, con quel leggero e inquietante scarto di tonalità, quasi meraviglia e spaventa – anche perché lavora a dar forma a un'oscura nostalgia dell'Uno, dell'Indiviso? Quell'antica nostalgia che permane assoluta in quel regno profondo che il titolo richiama, forse ancora più arcaica della tensione alla concrezione rocciosa, monocellulare, sottostante e come ribelle alla vita, che le due vecchiette sembrano impersonare? E' quella tensione all'Uno figura di una nostalgia del divino? Non abbiamo letto purtroppo "L'uovo di bocca" di Claudia Castellucci, la plaquette poetica che ha fornito il materiale allo spettacolo, tuttavia nel ricordo che abbiamo delle parole del testo – a volte sottoposte a una vera e propria dilatazione fonica che ne rimodella il significante – permane la sensazione dell'interrogazione intorno alle questioni ultime, ma come tirate via, con una concentrazione preminente sulla comicità delle due sorelle. Sono quei personaggi che fanno prendere al testo quell'atmosfera di schermaglia ironica, quando forse, diversamente, l'aspetto lirico avrebbe preso il sopravvento. Sembra insomma che sia la natura di rimpasto di un materiale primario che dà all'operazione il suo tono caratteristico, come di qualcosa di già lungamente noto alle due interpreti, che così si abbandonano a un gioco di coppia (da vecchia coppia appunto) per il divertimento, straniato, loro e del pubblico.
Che infatti capisce e apprezza molto questo giocare, che acquista un'ulteriore sfumatura per via di un evento esterno che, a un certo punto, comincia a interagire con lo spettacolo, rendendo quest'ultimo poroso, come tutto il vero teatro deve essere, agli accidenti che possono capitare in recita. E così accade che il vociare del bar sotto, aperto alla foga dei tifosi brasiliani di una partita dei mondiali, intervenga nel funambolico gioco a due, certo senza disturbare più di tanto la ricezione, ma fornendo come un altro elemento sonoro con cui le attrici devono pur misurarsi (un altro regno profondo? Barbarico, più che medievale – e non ce ne vogliano gli amanti del calcio). Fino a quando lo spettacolo trova il suo umoristico riscatto (già previsto o aggiunto poco prima dell'andata in scena?) nell'esplosione sonora di due assordanti trombe da stadio, azionate dai tecnici in regia: una spiritosa e appropriata risposta dell'arte alla febbre da pallone.
Franco Acquaviva