Cenere. Per una poetica dell’impossibile
Regia e drammaturgia di Auretta Sterrantino
Interprete: Giulia Messina
Musiche originali: Vincenzo Quadarella
Disegno Luci: Stefano Barbagallo
Assistente alla regia: Elena Zeta
Assistente volontario: William Caruso
Produzione QA - Quasi Anonima Produzioni e Nutrimenti Terrestri Compagnia
Cortile Teatro Festival 27 luglio 2020
diretto da Roberto Bonaventura e Peppe Giamboi
Auretta Sterrantino privilegia un “Teatro di Poesia” (Omero, Cervantes, Shakespeare etc.), in cui le parole si arroventano prendendo fuoco all’interno d’un tabernacolo, ingrigendosi poi, diventando infine Cenere, come il titolo dello spettacolo messo in scena nel cortile del Palazzo Calapaj-D’Alcontres, in uno stile quasi “povero” secondo i dettami grotowskiani: architettando una pedana lignea di alcuni metri quadrati, sulla quale agiva, come una sua proiezione mentale, la giovane 22enne Giulia Messina che per 75 minuti, con movimenti di “Teatro Danza”, riscontrabili nel Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch, sfoderava una voce armonica e ficcante, dipingendo nel contempo un’infinita varietà di posture, in prevalenza feline, introducendo il pubblico, disposto in cerchio e distanziato secondo le disposizioni sul Covid-19, all’interno d’uno dei più attraenti e significativi poemi del XX secolo che è La terra desolata (1922) di Thomas Stearns Eliot. Trattasi del primo step d’uno studio, certamente felice e appassionante messo in atto dalla Sterrantino, in cui la parola profetica di Eliot non è mai sembrata tanto reale quanto oggi, in un clima di stordimento e annebbiamento culturale ed esistenziale in cui molti si chiedono quale civiltà potrà risorgere dalle macerie di questa nuova Waste Land. Per una comprensione più completa sarebbe necessario far riferimento almeno a Ovidio, Dante, Chaucher, Shakespeare, Il ramo d’oro dell’antropologo Frazer e Il paradiso perduto di Milton, l’opera monumentale Ritual to Romance di Jesse Weston e i miti legati alla leggenda del Santo Graal. La terra desolata infatti è ricca di citazioni che creano una ragnatela di significati che vanno aldilà dell’opera stessa perché forniscono spazi simbolici e immaginativi utili per una possibile scrittura scenica, che del resto è ciò che sta facendo la Sterrantino. C’è anche da dire che i versi de La terra desolata sono molto musicali e i più sensibili possono avvertire partiture astratte e concrete, suoni tonali e atonali che Vincenzo Quadarella ha fatto sue, spaziando a suo piacimento, realizzando infine una colonna musicale che sarebbe piaciuta pure a Edgar Varèse, Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern, in grado di produrre, come diceva Richards, una particolare liberazione della volontà. Nello spettacolo giocano un ruolo importante le luci di Stefano Barbagallo irradiate da una sorgente che cambia di colore a seconda dei personaggi che si rinvengono nell’opera, creando momenti intimisti di introspezione e di riflessione. Un bestiario di protagonisti in movimento come la Sibilla Cumana, i ritratti vivi e reali della Dattilografa e dell’Impiegato foruncoloso, la chiaroveggente Madame Sosostris, l’Oste, la donna del pub londinese, le coppie di amanti sterili, il testimone dello sfacelo odierno Tiresia, solo per citarne soltanto alcuni. Ritratti frammentari che riflettono un mondo di solitudine, di degrado e di dissociazione morale cui la nostra realtà contemporanea ci ha abituato. E per dirla con Claudio Collovà, “La terra desolata parla di ciò che accade oggi raccontandolo nell’unico modo possibile, come una sorta di zapping ante litteram”.
Gigi Giacobbe