UN’ESTATE DIVERSA
Poteva essere una pausa di riflessione, un momento anche legittimo di ripensamento: la pandemia era un’esperienza ancora molto recente, le regole per riportare il teatro in mezzo alla gente piuttosto complicate e la voglia di continuare a sostenere un festival poteva non rappresentare una priorità. Ma c’è chi ha ritenuto che fermarsi sarebbe stata una sconfitta: per la propria tradizione, per il pubblico, ma soprattutto per quel collegamento delicato e sottile che lega un’edizione a quella successiva. Fermarsi avrebbe significato spegnere motori che lavorano da più di mezzo secolo, perdere la loro forza propulsiva, la voglia delle idee, il gusto di esserci, e lavorarci, e investire la propria energia in un progetto. Fermarsi poteva forse essere la cosa giusta da fare ma anche, allo stesso tempo, un rischio ancora più grande di quello che si è inteso affrontare: arrendersi, non sapere se il progetto avrebbe avuto un domani, mettere in solaio persone, idee, fatiche, confronti, pensieri, tradizioni che sono molto più che cartelloni in un archivio o parole nella memoria. Sono persone che ci hanno creduto e che hanno lasciato il testimone a chi ancora ci crede. Allora malgrado i tagli ai budget, i sacrifici dei lavoratori dello spettacolo, una politica che a volte non sa decidere, per dare un senso alla propria storia a San Miniato e a Monticchiello, in questa strana estate, si è deciso di andare avanti e di adeguare ai tempi il proprio progetto.
La LXXIV edizione della Festa del Teatro di San Miniato ha completamente stravolto il proprio assetto: dopo due anni in cui lo spettacolo principale aveva puntato su un assetto innovativo rispetto alla tradizione del festival, più attento ai nuovi linguaggi della scena contemporanea, quest’anno la Fondazione Istituto Dramma Popolare ha deciso di offrire al pubblico dal 5 al 27 luglio, nello spazio aperto di Piazza del Duomo, un cartellone di otto spettacoli con cinque prime assolute, collegati tra loro dal filo conduttore della sicurezza.
In realtà era già pronto lo spettacolo principale, “Irma Khon è stata qui” di Matteo Corradini, con la drammaturgia di Tatiana Motta e la regia di Pablo Solari; ma la normativa anti-covid non avrebbe consentito la presenza di dodici attori sulla scena e così si è deciso di rimandare l’esordio a momenti più propizi e rivoluzionare il cartellone.
In questo modo il Teatro dello spirito si è sintonizzato su una delle principali emergenze di questi anni, declinandola in varie modalità: sicurezza sanitaria e professionale, ma anche sicurezza in tema di immigrazione, di sport, di ambiente, sicurezza per i bambini e per gli adolescenti; con l’intenzione di non proporre una visione preconfezionata, ma piuttosto di stimolare una libera riflessione su temi complessi, che come tali hanno bisogno di studio e approfondimento, e di risposte a loro volta complesse, lontane da semplificazioni e slogan.
Alcuni spettacoli sono stati presentati in forma di studio, con scenografie minimali e quasi tutti con un unico/a protagonista sulla scena.
Ha aperto il cartellone “Panico ma rosa. Diario di un non intubabile” di Alessandro Benvenuti, il cui debutto è previsto nel mese di settembre al Mittelfest di Pordenone, il racconto di 59 giorni di lockdown di un attore che, non potendo lavorare su un palcoscenico, ha deciso di dare libero sfogo ai propri ricordi: la vita del quartiere, gli episodi dell’infanzia, il rapporto con i genitori e con i compagni di scuola, un fiume carsico che emerge prepotentemente quando saltano le coordinate della quotidianità e il pensiero vaga senza redini toccando le tappe che hanno fatto la storia di un uomo.
Tra gli spettacoli da segnalare “Canto per la terra ferita”, con cui Andrea Giuntini -insieme al gruppo musicale Vincanto- racconta con voce, luci e canto il dramma ambientale con tonalità di sogno e speranza, un tempo magico e sospeso sul canto caldo della tradizione orale italiana.
Di rilievo anche “La vita salva”, un esempio di teatro di parola in cui Silvia Frasson, in canotta e pantaloni neri, mette il proprio corpo e un denso ritmo vitale nel cuore delle storie narrate in tema di dolore, lutto e donazione degli organi.
In chiusura di rassegna è andata in scena la prima assoluta di “The block – il muro”, di Matteo Corradini, spettacolo inizialmente pensato per sei attori ma ridotto in questa circostanza a una versione per sola attrice. La scena è ambientata nello spogliatoio di un palasport prima di una partita di pallavolo femminile. La protagonista è l’ultima giocatrice che deve scendere in campo: mentre si prepara per la partita, con gesti già compiuti mille volte ma nel tempo dilatato di 50 minuti di spettacolo, riflette ad alta voce sul concetto di muro, di divisione, che non è solo fisica, ma abita anche le menti e i cuori degli uomini, che solo restando insieme possono costruire muri e solo insieme possono abbatterli. Marta Prunotto interpreta in modo intenso i dubbi e le riflessioni che emergono in questo spazio senza tempo. Il testo, che a tratti appare disorganico in alcune digressioni, è in grado di suscitare profonde riflessioni su una contemporaneità in cui spesso le divisioni sembrano avere la meglio sulla volontà di costruire insieme.
Il Dramma Popolare conferma anche in questa edizione eccezionale la propria vocazione principale, quella di avvicinare al teatro più persone possibili portando in scena proposte di qualità: esperimento riuscito perché, pur rispettando le rigide disposizioni ministeriali, più di duemila spettatori hanno presenziato agli spettacoli e alle “conversazioni al tramonto”, in cui autori e attori hanno raccontato al pubblico la propria idea di teatro.
MONTICCHIELLO
Anche la 54esima edizione del Teatro Povero di Monticchiello ha dovuto fare i conti con la normativa vigente ed pure in questo caso il festival si è adattato alle circostanze, scegliendo però di valorizzare al massimo il vero protagonista di tutte le edizioni del festival: il borgo di Monticchiello. Così la modalità utilizzata per fare fronte alle limitazioni di legge è stata quella di mettere in scena uno spettacolo itinerante, che ha accompagnato gli spettatori lungo le strade e le piazze. Si tratta di un’esperienza teatrale unica in Italia: gli abitanti di questa piccola frazione murata della Valdorcia, a pochi chilometri dal Comune di Pienza, durante l’inverno si confrontano per ideare, scrivere e portare in scena nelle sere d’estate una storia che racconti il proprio territorio, i dubbi e le domande che gli stravolgimenti sempre più rapidi della realtà suscitano nei suoi abitanti; per un tempo che sembrava essere infinito la vita era ritmata dai tempi della terra e della mezzadria, semina e raccolto. Poi, sempre meno lentamente e in un modo che appare inesorabile, il mondo attorno è cambiato: lo Stato ha cominciato a togliere al paese alcuni servizi, il turismo ha iniziato a farsi largo, e insieme al turismo l’arrivo di nuovi abitanti da mondi che sembrano lontanissimi. Una vera rivoluzione, quest’anno superata dalla realtà che ha ridotto drasticamente le presenze turistiche e spinto a ripensare la struttura dello spettacolo. L’attualità ha preso il posto della storia, e la comunità si è adeguata a un nuovo ritmo di racconti.
Così, dal primo al 15 agosto è andato in scena “Isole d’istanti”, un autodramma (questa la definizione che diede a suo tempo Giorgio Strehler è che è rimasta nel tempo a definire per antonomasia gli spettacoli del Teatro Povero) strutturato pensando alle conseguenze di quanto accaduto nel mondo: perdita di dialogo, connessioni virtuali, spazi comuni da ripensare, tempi morti da riempire, un nuovo senso da dare alla realtà ed alle relazioni. Un problema che poteva portare alla sospensione di questa esperienza si è trasformato, darwinianamente, in una preziosa opportunità di rinnovamento e riflessione: lo spettacolo di quest’anno ha quindi abbandonato la storica sede di Piazza della Commenda -quasi un anfiteatro in cui sarebbe stato impossibile sedersi per gli spettatori e recitare per gli attori, assiepati in grande numero su un palcoscenico troppo piccolo per rispettare le prescrizioni ministeriali- ed ha portato venti spettatori alla volte, quattro volte per ogni serata, a sostare all’interno di 13 diverse stazioni sparse per il borgo.
Tempi e spazi separati, sia fisicamente per pubblico e attori che all’interno della narrazione. Da una parte i decenni che hanno scandito le fratture con il passato: l’epidemia di Spagnola nel 1920, il dopoguerra del 1950 e la pandemia di questo 2020. Dall’altra un flusso narrativo che comprende i temi più cari al territorio e che in qualche modo comprendono tutti una vicinanza fisica: il lavoro, la famiglia, le nuove convivenze, la scuola, le relazioni tra persone in questa piccola porzione di mondo. Ed è questa vicinanza impossibile a mettere in crisi gli equilibri di tutti i giorni, tra bambini ed adulti, ed a costringere i personaggi a ripensare il vivere comune.
Per il secondo anno la regia è affidata a Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli, capaci dopo tanto tempo di destrutturare il consueto impianto narrativo ampliando le veduta d’insieme, del paese e delle sue storie.
Uno spettacolo spurio eppure riuscito, novanta minuti itineranti (rispetto ai consueti cinquanta stanziali) che prendono avvio dalla porta della città e si soffermano nei suoi angoli più caratteristici, dove vanno in scena piccoli squarci di quotidianità che raccontano con naturalezza come capacità di adattamento e paura del cambiamento siano dimensioni della vita lungo le quali le persone da sempre cercano un proprio equilibrio. Senza incontro fisico gli anziani perdono una parte della propria identità, ma la stessa cosa accade ai ragazzi senza i propri device elettronici. Un paradosso solo apparente, come tanti altri che abitano questo tempo troppo definito eppure ancora tutto da costruire.
Monticchiello è più che uno spettacolo: è un’esperienza, un modo di essere, uno dei modi migliori per spiegare che libertà è partecipazione.
Mauro Martinelli