Le nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Regia di Antonio Calenda
Scene e costumi: Bruno Buonincontri
Musiche: Germano Mazzocchetti
Coreografia: Jacqueline Bulnès
Light Designer: Luigi Biondi
Assistente alla regia: Alessandro Di Murro. Assistente alla scenografia: Francesca Forcella
Assistente ai costumi: Laura Giannisi. Assistente volontaria: Ornella Matranga e Simona De Sarno
Direttore di scena: Giovanni Ragusa
Interpreti: Stefano Santospago, Nando Paone, Massimo Nicolini, Antonello Fassari, Galatea Ranzi,
Daniela Giovanetti, Stefano Galante, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Matteo Baronchelli,
Antonio Bandiera, Giancarlo Latina, Alessio Mannini, Damiano Venuto, Rosario D’Aniello
Coro di Nuvole: Noemi Apuzzo, Rosy Bonfiglio, Luisa Borini, Verdiana Costanzo, Laura Pannia
Coro: Giuliana Acquasanta, Valentina Brancale, Victoria Blondeau, Virginia Bianco,
Irasema Carpinteri, Federica Cinque, Valentina Corrao, Carolina Eusebietti, Caterina Fontana,
Giorgia Greco, Rosaria Salvatico, Francesca Trianni, Gaia Viscuso
Produzione INDA di Siracusa
Teatro greco 3/21 agosto 2021
Tutta bianca è la scena di queste Nuvole di Aristofane secondo Antonio Calenda al Teatro greco di Siracusa comprese le due loggette di foggia neoclassica ai lati d’una serie di quinte poste al centro dell’ampio spazio. All’inizio pensi a Cechov e ai giardini dei ciliegi strehleriani, ma pure ad alcuni spettacoli di Ronconi o al Pierrot Lunaire di Schönberg, oppure al finale di Otto e mezzo di Fellini, complice all’inizio un cavallo bianco su rotelle che entra in scena al suono d’una musichetta ruffiana in stile circense, dove in groppa è adagiato il Filippide di Massimo Nicolini e sotto vi è disteso lo Strepsiade di Nando Paone, guardati a visti da Stefano Santospago che impersona lo stesso Aristofane che vuole il primo premio per questa commedia da lui scritta. Sono tanti gli spunti che si ricavano da questo lavoro, molto attuale nel suo incedere, grazie alla bella traduzione di Nicola Cadoni, con strali che l’autore lancia al mondo dei filosofi, dei sofisti in particolare, che trionfavano ad Atene negli anni della guerra del Peloponneso, capitanati da un buffo Socrate, quello di Antonello Fassari che se ne sta appeso a un cesto nel Pensatoio (l’edifico alla destra di chi guarda la scena), per contemplare più da vicino le cose celesti, mentre i suoi discepoli discettano su quanti piedi salterebbe una pulce o se una zanzara canta con la bocca o col culo. A mettere alla berlina questo mondo di sofisti, Aristofane s’inventa una storia deliziosa e divertente, piena di vita e di verità resa credibilissima dalla perfetta regia di Calenda, con al centro il campagnolo Strepsiade di Nando Paone che lo veste alla meraviglia, una maschera napoletana d’antan, quasi alla maniera dei Viviani e Scarpetta, un uomo ignorante ma certamente non fesso che ha avuto la ventura di sposare una nobildonna superba e smorfiosa e dalla cui unione è nato un figlio, Filippide appunto, con la “r” moscia quello di Nicolini e la mania della corsa dei cavalli che mandano in rovina il padre per i debiti che contrae, un tipetto che poteva far parte della combriccola di Proietti/Montesano nel film cult Febbre da cavallo. E le nuvole che c’entrano? Altro che se c’entrano. Anche se non sono come quelle cantate da Fabrizio De Andrè che “vanno/vengono/ogni tanto si fermano/ e quando si fermano /sono nere come il corvo/sembra che ti guardano con malocchio…/. Sono qui raffigurate dalla fantasia di Calenda e l’estro dello scenografo Bruno Buonincontri che firma pure i costumi, con grandi e vaporose parrucche, quasi degli enormi cappelloni di varie tinte, dal grigio al nero al rosa, le sole divinità riconosciute, simbolo di stravaganti e inconsistenti speculazioni filosofiche, al punto da far dire a questo Socrate continuamente preso in giro che esistono soltanto loro e non più Zeus. Assieme al Coro le nuvole formano un ensemble di danzatrici e cantanti da ben comparire a Broadway (merito pure delle musiche ben assortite di Germano Mazzocchetti), assieme alle due ottime Corifee, Daniela Giovanetti e Galatea Ranzi, agghindate tutte di bianco, somiglianti a due bastoncini di zucchero filato con quelle nivee nuvolette sulla capoccia, che contribuiscono a dare allo spettacolo una marcia in più. Il racconto continua con Strepsiade cui interessa solo imparare dai filosofi, attraverso ragionamenti intelligenti, il modo per non pagare i debiti e con la furbizia del popolano capisce che questo è l’aspetto più interessante della filosofia. Viene sottoposto ad una serie di quesiti che il poveraccio non capisce perché vecchio e smemorato e abbandonando il pensatoio convincerà il figlio a prendere lui il suo posto. Filippide è più sgamato e impara subito al punto da diventare un perfetto sofista, mandando in sollucchero il padre che già pensa che l’avrà franca con i suoi creditori. Ma non è finita ancora perché adesso, attraverso convincenti ragionamenti, ricambierà al padre le legnate prese in vita sua quando era più piccolo e dopo averlo battuto di santa ragione vorrà suonargliele pure alla madre. A questo punto Strepsiade non ne può più e dopo aver chiesto perdono a Zeus e a tutti i numi dell’Olimpo bestemmiati darà fuoco alla casa di Socrate. Spicca in questa commedia che finisce in tragedia l’agone tra il Discorso Migliore e il Discorso Peggiore (appellativi, credo, che avranno influenzato nel ‘900 Rosso di San Secondo quando chiama i personaggi di Marionette che Passione “ Il signore in grigio”, “Il signore a lutto” o quelli de La bella addormentata “La Padrona guanceblu” “Un Grasso di velluto” etc…), entrambi agghindati in nero come dei prestigiatori o degli imbonitori, vestiti rispettivamente da Stefano Galante e Jacopo Cinque: sostenitore il primo della vecchia educazione, il secondo della nuova, dove Aristofane, sia pure tra scherzi e lazzi pare non voler scherzare più e con lui anche Calenda, diventando il verbo pura poesia e si rimpiange nostalgicamente la severa eduzione dei tempi passati mentre cadono giù quelle quinte bianche al centro della scena e si scopre solo il niente delle zolle nere. Mala tempora currunt.
Gigi Giacobbe