martedì, 19 novembre, 2024
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LXXV edizione della Festa del Teatro di San Miniato e Teatro Povero di Monticchiello. -di Mauro Martinelli

“Paradiso – dalle tenebre alla luce”, scritto da Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli “Paradiso – dalle tenebre alla luce”, scritto da Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli

PASSATO E FUTURO

Durante l’estate 2020, caratterizzata da una situazione sanitaria che aveva imposto a molte realtà l’interruzione della propria programmazione estiva, la Festa del Teatro di San Miniato e il Teatro Povero di Monticchiello avevano deciso di resistere e andare in scena ugualmente, adeguando le proprie produzioni ai vincoli di legge e del distanziamento sociale. Erano così state varate due rassegne per molti versi atipiche: con un cartellone ampio e variegato a San Miniato a sostituire lo spettacolo di punta della rassegna, e con una messa in scena itinerante a Monticchiello, dove gli spettatori si erano spostati da una scena all’altra nelle strade e nelle piazze dell’antico borgo.

Nell’estate appena trascorsa questi due appuntamenti storici dell’estate toscana sono tornati all’antica formula, rivisitandola però alla luce di un assetto drammaturgico che evidenzia comunque una nuova discontinuità con il passato.

La Festa del Teatro di San Miniato ha festeggiato quest’anno la sua LXXV edizione, un traguardo importante in un’epoca in cui continuità e tradizione sembrano parole obsolete, e le progettualità di lungo periodo stentano ad affermarsi, strette tra i vincoli di spesa e i gusti di un pubblico bombardato di stimoli e sempre più distratto. L’istituto del Dramma Popolare, che ha prodotto lo spettacolo del 2021, ha continuato a seguire la sua idea di teatro del sacro, adottando però un linguaggio nuovo, caldo, confidenziale. Così, nell’ambito delle iniziative per i 700 anni dalla morte di Dante, è andato in scena “Paradiso – dalle tenebre alla luce”, scritto da Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli, per la regia e l’interpretazione di Simone Cristicchi. Una cantica riletta non attraverso un approccio ermeneutico, magari infarcito da strizzate d’occhio per consentire al pubblico di comprendere i passaggi più ostici e non sentirsi così inadeguato, come accade in certe serate televisive; ma semplicemente raccontata per immagini, seguendo il flusso di pensieri personali nati da esperienze di vita o incontri che hanno generato occasioni di profonda riflessione: come se le risposte alle grandi domande del nostro tempo che ci siamo date fino ad oggi non bastassero più, e nascesse la necessità di spingere il nostro sguardo al di là di questo tempo denso di fratture sociali, guardando oltre l’urgenza di compiacere il pubblico.
Su un lato del palco è sistemata una scrivania sulla quale si trovano alcuni libri, che verranno sfogliati durante lo spettacolo, mentre poco oltre si trovano i 22 elementi dell’Orchestra Instabile di Arezzo, ad accompagnare lo spettacolo attraverso intermezzi sinfonici. Due colonne doriche, che il vento della serata tenterà di sradicare dal palcoscenico, incorniciano la scena e le immagini che vengono proiettate ad accompagnare lo spettacolo, mentre un sapiente gioco di luci valorizza al meglio ogni passaggio sulla scena.
E’ un teatro di parola in cui i motivi musicali si alternano ai racconti, come nella classica struttura del teatro canzone. Un uomo solo si trova al centro della scena e condivide con il pubblico i dubbi che rendono la sua quotidianità, come le nostre, meno scontata di un tempo. E’ una selva oscura dove è facile perdersi, senza più le coordinate che aiutavano i nostri padri, le certezze (magari poche, magari mai messe in discussione) con cui sono cresciuti, tra doveri da adempiere e ruoli da ricoprire al meglio delle loro possibilità. Il Paradiso di Dante è un pretesto, un aggancio che consente a questa realtà inclassificabile di trovare alcuni punti di riferimento. Il sacro come spiritualità, ancora prima che come professione di fede. La consapevolezza dell’essere trascendenti e la possibilità di scoprirlo attraverso semplici parole. E un percorso fatto di domande, di aperture su altri mondi, con risposte che aprono a nuove domande. Qualcosa di difficile da restituire in una cronaca, un succedersi di suggestioni e immagini capace di coinvolgere la platea e restituire in una serata tutta la magia che gli spettacoli online visti durante i lockdown ci avevano fatto dimenticare.

Simone Cristicchi è artista poliedrico poiché capace di giocare con grande abilità tra musica, immagini e parole. Ma anche perché riesce a parlare a più livelli di suggestione, evocando pensieri che vagano liberi per perdersi nelle infinite potenzialità delle nostre vite: ciò che potremmo essere, vivere, sperimentare, condividere, donare. E lo fa da crooner quieto e misurato, la voce come un gesto caldo e accogliente.
Lo spettacolo, andato in scena nello spazio all’aperto antistante il Duomo dal 23 al 28 luglio per poi proseguire su altri palcoscenici estivi, esce dal solco della tradizione formale di San Miniato: in particolare per quanto riguarda il testo, un insieme di immagini più che una dramamturgia complessa; e l’impianto, affidato a un unico protagonista che non parla il linguaggio dei classici. Eppure poche altre volte il tema del sacro e il bisogno di spiritualità erano stati così potentemente al centro della scena, e così semplicemente affidate alla comprensione degli spettatori. I quali hanno restituito il calore ricevuto tributando un lungo applauso al termine dello spettacolo.

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Il Teatro Povero di Monticchiello, edizione numero 55

Il Teatro Povero di Monticchiello, giunto questa estate alla sua edizione numero 55, è tornato nella sede naturale di Piazza della Commenda con lo spettacolo “Inneschi”, andato in scena dal 31 luglio al 15 agosto.
Prima dello spettacolo la compagnia è salita sul palco per rendere omaggio ad Andrea Cresti, il suo regista, anima e presenza costante per quasi 30 anni, che ci ha lasciati nel mese di giugno. L’autodramma, come lo definì con felice neologismo Giorgio Strehler, nacque nel 1967 con l’intento di fermare lo spopolamento del borgo della Val d’Orcia attraverso una rappresentazione artistica originale: gli abitanti si incontravano in assemblee aperte a tutti e attraverso il confronto di idee e proposte nasceva un testo che sarebbe poi stato messo in scena durante le sere d’estate dagli stessi autori trasformati in attori. La rappresentazione diventava così una testimonianza civile raccontando la storia di questo angolo di Toscana, gli episodi della guerra, le rivolte contadine; poi, con il tempo, iniziò a interrogarsi sulla propria identità. Andrea Cresti, che aveva fatto parte del gruppo fin dall’inzio, prese le redini del progetto nel 1989 e le mantenne per 30 anni, trasformando una filodrammatica di paese in un fenomeno culturale ormai conosciuto in tutta Italia. Lo fece mantenendo l’impianto originale del progetto ma spostando il focus della drammaturgia sul rapporto tra i grandi eventi del nostro tempo e le loro ricadute sul piccolo borgo medievale. Ma soprattutto lavorando sulla compagnia, uomini e donne che di giorno hanno altre vite (negozianti, agricoltori, ristoratori, artigiani, pensionati) e nelle sere d’estate si trasformano in attori che con il tempo hanno saputo costruire una consapevolezza scenica che ha poco da invidiare a molti professionisti.

Lo spettacolo di quest’anno racconta la vicenda di una bomba inesplosa, rinvenuta nella cantina di una famiglia che così è costretta a lasciare la casa per consentire il disinnesco dell’ordigno. Attorno a questa emergenza si muovono come in un girotondo tutti coloro che, per convenienza o per timore, sono coinvolti in prima persona: il Sindaco del paese, che vuole approfittare della situazione per promuovere il turismo con l’aiuto di un magnate italo-americano; i componenti della famiglia, ognuno dei quali cerca a modo suo di gestire questa emergenza, che si va a sovrapporre alle altre problematiche quotidiane (la mancanza di lavoro, la pensione che non arriva, una deriva psicotica, i traumi subiti durante la guerra); i giovani della cooperativa, che si mettono a disposizione per ospitare gli sfollati; e l’assemblea del paese, che su invito del sindaco si riunisce proprio nella casa da evacuare, riproponendo sul palco le dinamiche di confronto che tutti gli anni nella realtà precedono la stesura del copione (e che per questo spettacolo, vigenti le norme sul distanziamento sociale, si sono spostate su piattaforme online).
Il palcoscenico riproduce il salotto della casa dove di volta in volta si alternano i dialoghi tra i protagonisti. Lo spettacolo scorre fluido, godibile, e le metafore che porta (come la bomba sepolta ma pronta a esplodere, e gli artificieri che continuano a non arrivare) raccontano della pandemia e dei fantasmi che ha fatto emergere, le responsabilità degli uomini, i loro interessi privati che malgrado tutto continuano spesso a prevalere su quello collettivo.
Nonna Lidia, che apre e chiude lo spettacolo seduta sulla sinistra della scena, nonostante gli inviti della nipote, non vuole rientrare in casa anche se sta calando la sera e la temperatura si abbassa. C’è qualcosa di più del timore di un ordigno inesploso, qualcosa che si nasconde nelle pieghe del tempo e che verrà svelato solo al termine dello spettacolo, aprendo il velo sui ricordi ancora vivi della guerra.
Da due anni le redini del progetto sono state affidate a una coppia di registi, Manfredi Rutelli e Giampiero Giglioni, che hanno reso il racconto fluido e dotato di un buon ritmo. Rispetto al passato, le derive oniriche, non sempre leggibili dal pubblico, hanno lasciato spazio a una serie di racconti inseriti all’interno della vicenda principale, piccole derivazioni che si intersecano a raccontare il punto di vista di ciascun gruppo di protagonisti: i giovani, che accusano gli anziani di aver lasciato loro un mondo sull’orlo del collasso; gli anziani, che si meravigliano di come i ragazzi invece non vedano i progressi e il benessere maturati grazie a una vita di duro lavoro; la politica, che guarda al proprio tornaconto senza curarsi dei danni che può combinare.
Sul palco la compagnia si muove in modo agile, gli automatismi di scena sono ormai rodati, e la capacità degli attori più esperti sono fuori discussione. Ogni anno torniamo, vediamo invecchiare gli attori principali, ci auguriamo un ricambio generazionale (che i due registi hanno avviato con laboratori nelle scuole), ma soprattutto rimaniamo meravigliati di come questo esperimento sociale, prima ancora che culturale, sappia rinnovarsi nel tempo mantenendo la freschezza e la gioia di ritrovarsi in scena.

Mauro Martinelli

Ultima modifica il Sabato, 11 Settembre 2021 11:47

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