Come nelle opere di Kafka con inizi lampanti, quasi traumatici, anche quest'ultimo lavoro di Spiro Scimone, titolato Giù, diretto dal suo alter-ego Francesco Sframeli, nonché attore e compagno di tutti i lavori che vanno dal nuovo corso iniziato nell'agosto di 20 anni fa con Nunzio e via via tutti gli altri (Bar, Festa, Cortile, Busta, Pali) ha qualcosa che gli somiglia. Complice quell'uomo (Gianluca Cesale) che di prima mattina s'insapona il viso per sbarbarsi e si ode una vocina, che lo chiama "papà", sopraggiungere dall'interno d'un grande cesso posto al centro della scena disegnata da Luca Fiorino (tra l'altro Premio Ubu 2012). E quando quel padre gli chiede perché se ne stia lì tutto nascosto e acquattato, il figlio (lo stesso Scimone) gli risponde che c'è finito anche per colpa sua, non in grado di risolvere i suoi problemi e che, avendo capito che nulla o poco può fare per aiutarlo a venire fuori, ha deciso di starsene in questa panciuta tazza di porcellana perché almeno lì sotto non dovrà pensare e non dovrà preoccuparsi del futuro e conclude dicendogli che se la sua presenza può dargli fastidio può tirare la catenella dello sciacquone. Sembra un inizio che ricalca l'aeterna questio del rapporto padri-figli, sennonché da quel salvifico cesso cominciano a udirsi le voci e apparire le facce di altri personaggi col solo scopo di poter prendere una boccata d'aria e chiarire loro condizione. Ecco Don Carlo (lo stesso Sframeli), un prete-scomodo costretto a pregare nel cesso, un corvo nero che bestemmia quando non trova la carta igienica ed ecco il suo sagrestano Pasquale (Salvatore Arena) che non si ribella mai e che quando trova il coraggio di farlo saprà suonare le campane e farà il verso delle pecore. C'è anche il povero cristo di Ugo che non si vedrà in scena e che preferisce cantare "Mamma" sotto un ponte per non smarrire e vendere la propria dignità. Giù sembra l'opera più "politica" di Scimone, una chiara metafora di un'intera generazione che è stata gettata nel cesso per colpa d'una società che ha più pensato ad "avere" e "sembrare" che ad "essere" e "fortificare", edificare un futuro certo e sicuro per tutti i propri figli. Una società allo sbando di cui si sono smarrite le coordinate e le cui lancette della bussola sono impazzite al punto da non capire più dove sia il nord e il sud, il bene e il male. Ha voglia Pasquale ad accendere candele e porle sul proscenio, imitare versi e mosse d'un gattino miagolante (forse questa parte è troppo scontata, quasi didascalica, direi superflua e priva di mordente), raccontare pure che tale padre Sergio ha abusato di lui sin da ragazzino, perché tanto il giorno dopo i mis-fatti passano nel dimenticatoio e somigliano a quelle gocce d'acqua d'un acquazzone che scivolano su una cerata. Il colpo di scena finale sarà che anche quel padre, dopo essersi sbarbato e messo al collo la cravatta s'infilerà in quel cesso e tirando la catenella il vortice dell'acqua lo risucchierà nel profondo degli inferi. Moltissimi gli applausi finali con ovazioni da stadio al Palacongressi di Taormina dove accanto a Giù sono state ri-proposte in un calendario ristretto tutte le altre piecès di Scimone, inserite all'interno del progetto "L'universo teatrale di Spiro Scimone e Francesco Sframeli" con una giornata di studi in loro onore, con interventi di studiosi, docenti, critici italiani e stranieri, in collaborazione con Taormina Arte, sotto forma di "evento speciale", grazie al sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, alla individuazione di fondi europei e ai proventi di biglietteria. Importante il sostegno di ERSU e del Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative "Universiteatrali" dell'Università di Messina.
GIU' di Spiro Scimone al Palacongressi di Taormina. di Gigi Giacobbe
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Festival - Rassegna Stampa
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