È stata la mano di Dio
di Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri
Italia 2021
Napoli piange e ride
Anni ’80. Alla fermata dell’autobus ci sono molte persone in fila, tra queste la bella e prosperosa Patrizia (Ranieri); un’elegante macchina, guidata da un autista in divisa (Alfonso Perugini) le si ferma accanto e il proprietario (Enzo Decaro), dopo essersi presentato come San Gennaro le dice di conoscerla, di poterla aiutare nel suo desiderio di avere un figlio e si offre di accompagnarla. Prima però la porta nel suo diroccato palazzo, dove li attende un bambino nascosto da un lungo saio (il “monacielllo”); lui la invita a chinarsi e a baciare la testa del fratino e, dopo averle afferrato il sedere, le comunica che rimarrà incinta. Tornata a casa, il marito Franco (Massimiliano Gallo) la accusa di essere andata a fare le marchette e la picchia; giungono in suo soccorso i suoi parenti: Saverio Schisa (Servillo), la moglie Maria (Saponangelo) e il figlio sedicenne Fabio (Scotti), da sempre invaghito della zia Patrizia. La casa degli Schisa appare, per contrasto, un porto idilliaco: Saverio e Maria si salutano con un romantico fischio, mentre Fabio sta finendo gli studi classici – per cui cita spesso versi danteschi - e il fratello più grande, il pigro Marchino (Joubert) frequenta con comodo l’università e partecipa a qualche provino cinematografico senza troppa convinzione (c’è anche una sorella ma è sempre chiusa in bagno). La mattina successiva Maria riceve la consueta visita dell’inquilina del piano di sopra, la Baronessa Focale (Betty Pedrazzi), che dopo aver sparlato di tutti, si assicura che, come spesso, le faccia trovare il pranzo pronto sull’uscio. La famiglia Schisa partecipa ad un pranzo per conoscere il fidanzato – l’attempato e malconcio Aldo Cavallo (Alessandro Bressanello) – della grassa sorella (Carmen Pommella) del loro cugino (Roberto De Francesco), veterinario e intrallazzone con tanto di moglie (Monica Nappo) con pose da arricchita e madre (Dora Romano) ringhiosa e scurrile, che, pur essendo estate, non si separa dalla pelliccia regalatale dal figlio. Segue una gita in barca, durante la quale Patrizia imbarazza ed eccita gli uomini prendendo il sole nuda, mentre una motonave della guardia di finanza insegue invano un motoscafo di contrabbandieri. Il discorso cade sul ventilato arrivo di Maradona al Napoli: Fabio ci spera, Saverio non ci crede e il vecchio zio Alfredo (Renato Carpentieri), comunista in crisi, si dichiara pronto al suicidio se il Pibe de Oro non dovesse arrivare. Maria ama fare gli scherzi e un giorno telefona alla vicina attrice alto-atesina Graziella (Britte Berg), alla quale dice di essere la segretaria di Zeffirelli e che il Maestro l’avrebbe scelta quale protagonista del suo prossimo film sulla Callas. Una sera un’altra telefonata fa scoppiare una violenta scenata: è l’amante di Saverio che reclama i propri diritti di madre di una sua bambina. Maria lo caccia di casa ed ha una violenta crisi di pianto, che provoca in Fabio un violento tremore; la mattina seguente il tenero autistico Marriettiello (Lino Musella), vedendola triste, cercherà di consolarla. La burrasca passa e Saverio – tornato a casa – riceve una confidenziale telefonata: Maradona ha firmato con il Napoli. Fabio ne è felice e, accompagnando il fratello per un provino con Fellini e, di lì a poco, assistendo alle riprese di un film di Capuano, conosce l’attrice Yulia (Sofya Gershevich) e sente un’improvvisa forte attrazione per il cinema (e anche un po’ per la ragazza). Durante la partita Argentina-Inghilterra, Maradona segna il suo famosi gol di mano e, mentre Zio Alfredo esclama: “E’ una rivoluzione!”, nella casa del veterinario l’entusiasmo è raggelato dei carabinieri giunti per arrestarlo. Saverio e Maria hanno comprato una casetta a Roccaraso e una domenica vi si recano, Fabio dovrebbe partire con loro ma preferisce andare a vedere Napoli-Empoli; finita la partita va in un teatrino off a vedere Yulia ma all’uscita viene raggiunto da Marchino che con lui corre a Roccaraso: i genitori hanno avuto un’incidente. Quando arrivano all’ospedale apprendono che sono morti entrambi per le esalazione di monossido di una stufetta; Fabio ha una crisi violenta quando il personale medico rifiuta (per risparmiargli uno schok) di farglieli vedere. Improvvisamente solo, Fabio – che, intanto, è stato convinto dallo zio Alfredo di dovere la vita a Maradona e ha perso la verginità con l’anziana Baronessa - farà due incontri importanti: Armando (Biagio Manna), il pilota del motoscafo dei contrabbandieri e Antonio Capuano (Ciro Capano) che – in maniera diversissima – lo convincono a non abbondare il sogno di fare il regista.
Questo è il nono film di Sorrentino – più le due serie The young pope e The new pope e le due riprese televisive delle sue regie di Sabato, domenica e lunedì e Le voci di dentro di Eduardo – ed è (come gli altri otto) personalissimo e diverso dagli altri. E’ uno dei pregi migliori del regista: avere un tocco sempre fortemente riconoscibile e cambiare profondamente stile e contenuti ogni volta. Certo questo è il suo primo film dichiaratamente autobiografico ma è altresì vero che – come per tutti gli autori ma per lui forse ancor di più – in ogni suo film racconta di sé: è il doppio Antonio/Tony de L’uomo in più e il contabile di mafia de Le conseguenze dell’amore, tutti e tre segnati da un fato di fallimento e di riscatto; è il bieco e abbandonico usuraio (ma anche l’infantilmente sleale cowboy) de L’amico di famiglia; è il potente e solitario Andreotti de Il divo ma anche l’istrionico e shakespeariano Berlusconi di Loro; potremmo proseguire ma basti ricordare il caustico cinismo che copre una dolente umanità di Jep Gambardella ne La grande bellezza per completare il mosaico di un autore che in ogni sua opera offre – con sapienza ironica e enorme profondità di auto-analisi – una dolorosa parte di sé. E’ semmai vero che in E’ stata la mano di Dio Sorrentino ci racconta con grande apertura il proprio precorso creativo: in questa chiave l’essere tornato a girare a Napoli dopo il suo primo film - oltre ad essere indispensabile nel racconto della propria giovinezza - acquista un particolare valore di dichiarazione estetica: il sentito omaggio ad Antonio Capuano (che ha creduto in lui e gli ha fatto scrivere Polvere di Napoli) è contemporaneamente una presa di distanza dall’estetica “dell’altra Napoli” che ha caratterizzato i registi partenopei da Capuano in poi (e, in parte, il suo L’uomo in più). I personaggi, che nella prima parte del film sono anche macchiettistiche maschere, dopo la tragedia diventano umanissimi e consapevoli, le location, ben lungi dalla sulfurea Napoli dei Capuano, Martone e Incerti degli esordi è quasi cartolinesca ma, anche per questo vivissima e pulsante (il citato titolo Napoli piange e ride – dal canzonettistico film di Paolo Calzavara del ’54 – allude proprio a questa profonda rivoluzione-riappropriazione estetica della tradizione, rivista con la genialità di chi costantemente sperimenta). A Capuano inoltre viene dato il compito maieutico di dichiarare il proprio dolore per la perdita dei genitori vissuta come crudele abbandono. Si invera, nel film, ancora di più il proposito fellinianamente dichiarato di “Fare film perché la realtà è scadente”: qui la realtà/irrealtà è dolorosa ma bellissima. E’ stata la mano di Dio ha avuto il premio della giuria a Venezia ed è candidato agli Oscar dall’Italia, scelta necessitata ed ineccepibile.
Antonio Ferraro