LA SCUOLA DEL SILENZIO
Si legge in un niente, grazie ad un lessico comprensibile anche a chi ha fatto le elementari e non t’accorgi che in pochi minuti sei arrivato a pag,48. Sto parlando de La scuola del silenzio primo romanzo di Ninni Bruschetta (dopo alcuni saggi Sul mestiere dell’attore e L’officiante) che conosco da quando giovanissimo metteva in scena i suoi primi lavori su Beckett e John Gage, incuriosito oltremodo da quell’anti-spettacolo ipnotico di Bob Wilson del 1970 titolato Deafman Glance (Lo sguardo del sordo) che nella versione parigina durava dieci ore, diventato poi (Bruschetta) regista teatrale e attore di cinema conosciuto in tutta Italia. Il romanzo in questione, anche se i personaggi che vi compaiono hanno altri nomi, poggia su due storie che hanno segnato la vita di Bruschetta, raccontate in modo parallelo da non confondere il lettore. La prima si svolge al tempo in cui il protagonista non volendo fare il servizio militare, perché obiettore di coscienza, verrà dirottato a lavorare nella portineria di un Istituto per sordomuti. Un lavoro che durerà venti mesi, certamente non edificante, ma che tuttavia gli permetterà di conoscere Padre Alessandro, un prete friulano, diabetico, che dirige con competenza e umanità la struttura, instaurando un rapporto d’amicizia, pure d’intimità come quella storia d’amore che quel prelato gli confessa di vivere con una donna sposata. Un microcosmo di personaggini, dove il neo-portiere conoscerà tante piccole creature che gli vogliono bene, individuando chi gli vuole male come quel Don Fabio che sta a capo dell’Istituto. Il racconto si tinge di giallo quando un ragazzino di 7 anni verrà trovato ucciso nella tromba d’una scala, ma le morti non si fermano qui, infoltite dalla ridicola figura d’un commissario di polizia che non riesce a scoprire nulla. Se quell’Istituto di sordomuti sembra Il Castello dei destini incrociati, il Teatro cui fa riferimento Bruschetta, nella seconda parte del suo romanzo, somiglia a quell’Abbazia benedettina de Il nome della rosa dove regna un “verminaio” di personaggi che si muovono tra intrighi e veleni, simili a degli omicidi che si consumano in silenzio e in piena solitudine. Qui Bruschetta, facendo anagraficamente un grande salto in avanti, quando è già conosciuto in ogni luogo, viene nominato per un triennio direttore artistico d’un Teatro di cui non fa il nome, omettendo pure la città in cui si trova, ma che tutti riconoscono, cozzando come in un autoscontro con le pastoie e le burocrazie d’un Ente regionale, buono solo ad evolvere stipendi ad una cinquantina di lavoratori, assicurare le poltrone ai vertici del Teatro, compreso il CdA, nominato da quei partiti che in quel momento sono un tutt’uno con chi comanda alla Regione. Bruschetta voleva solo lavorare, programmare dei cartelloni singolari, senza rivolgersi alle agenzie del Nord, produrre spettacoli, creare indotto economico, mettere in scena lui un Amleto che gli faranno sempre saltare (in realtà lo realizzerà concretamente debuttando in una cittadina del Tirreno con un gruppo di giovani attori talentuosi), costringendolo alle dimissioni, perdendo soltanto al tie break (7-6, 7-6, 7-6), facendolo volare ancora più in alto verso traguardi più ambiziosi. Riguardo la copertina di questo libro che ritrae un ficodindia, mi piace riportare ciò che mi disse il pittore Giulio Turcato in un’intervista fattagli a Taormina nel 1985. «Il ficodindia è un’espressione meridionale, sicula. Dà una sensazione di simbolo. A Milano, a Roma cresce poco. Poi è anche una difesa: esteticamente il ficodindia è bello. È una pianta astratta, in fondo. Quando fiorisce, fa dei bei fiori gialli. È un’estetica a sé stante. È una pianta che si difende con queste spine…Come il siciliano che s’è difeso nella storia. Il simbolo della Sicilia potrebbe essere il ficodindia. È una pianta bella da vedere. È quasi una scultura. E poi resiste anche in un paesaggio assolato e dà frutti succosi, vitaminosi» |
LA SCUOLA DEL SILENZIO
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