di Giuseppe Verdi
Libretto di Joseph Mery e Camille Du Locle
Regia: Claus Guth ripresa da Marcelo Persch-Buscaino
Direttore d’orchestra: Henrik Nanasi
Maestro del coro: Fabrizio Cassi
Filippo II | John Relyea
Don Carlo | Piero Pretti
Rodrigo | Gabriele Viviani
Il grande inquisitore | Alexander Tsymbalyuk
Un frate | Giorgi Manoshvili
Elisabetta di Valois | Rachel Willis-Sørensen♭
La principessa Eboli | Varduhi Abrahamyan
Tebaldo | Maria Knihnytska
Il conte di Lerma | Ivan Lualdi
Un araldo reale | Vasco Maria Vagnoli
Una voce dal cielo | Désirée Giove
Primo deputato | Sebastià Serra
Secondo deputato | Yunho Kim
Terzo deputato | Maurizio Bove
Quarto deputato | Ignas Melnikas
Quinto deputato | Giovanni Impagliazzo
Sesto deputato | Antimo Dell’Omo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro | Fabrizio Cassi
Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con Latvijas Nacionālā Opera un Balets
Teatro San Carlo Napoli dal 19 al 31 gennaio 2025
Guth è andato per la versione d’origine, quella francese in 5 atti, ma ne ha espunto il balletto, peccato, sarebbe stato un Grand Opera in piena regola, in tempi in cui ne è rimasto un lontano ricordo. Ed ha avuto la mano leggera, niente alterazioni, fedele all’opera. E comunque di scelte, Guth ne ha fatte. Intanto quella di un Don Carlo sognatore (versione francese, appunto), rispetto a quella del Don Carlo eroico della versione risorgimentale italiana. Il sipario si apre su una lugubre stanza del convento di San Giusto immersa nel buio e attraversata da un debole fascio di luce che entra da una feritoia, nulla di piu’ carcerario. E su quella stessa scena si chiude alla fine del quinto atto, sicché tutto il dramma sembra essere stato un sogno, meglio: un incubo. I costumi rigorosamente neri per i carnefici e bianchi per le vittime, sono una scelta un po’ manichea, perché tra i carnefici troviamo un Filippo a tratti pieno di umanità, e allora ci accorgiamo che la ricchezza psicologica dei personaggi del don Carlos non tollera di essere ridotta a due soli colori. Ma lo spettacolo tiene per ritmo, cambi di scena, potenza di immagini e intensità di voci. E per la costante presenza in scena del giullare, una inquietante figura di gnomo che sembra l’incarnazione vivente del ‘Bufon don Sebastian’ di Velasquez. Saltella da un angolo all’ altro e, come il coro nella tragedia greca, sottolinea, se non con la voce, con gesti per lo piu’ grottesch, i sentimenti dominanti. Il don Carlo di Verdi ha almeno quattro protagonosti: Carlo, Filippo, Rodrigo e Elisabetta. E poi l’Inquisitore, la principessa di Eboli.... Sono le molte facce del dramma e del cuore umano: il potere (Filippo), l’amore contrastato ( don Carlo e Elisabetta), l’Ideale e la fedetà (Rodrigo), l’umiliazione, la vendetta e il pentimento (Eboli)… E su tutte si stende l’ala della Morte, di cui è indiscusso ministro il Grande Inquisitore. Il piu’ convincente a me è parso Filippo, presenza monumentale, che ha saputo far vibrare tutte le corde del suo basso profondo, splendido nell’aria “Ella giammai m’amo’”. Bene anche Pretti, tenore dalla voce sonora, ma non potente, che ben si adatta ad esprimere il carattere debole e incerto di don Carlo. Ottima per slancio e per passione la sua aria “Fontainebleau foresta immensa...”. Sorprendente l’entrata in scena di Rodrigo: impermeabile e cartella sotto il braccio, come fosse un agente immobiliare, quando è invece il motore ideale del dramma. Ma gran portamento e gran voce di baritono, sempre piena, compatta, virile, bel ‘pendant’ con quella di don Carlo nel duetto ‘Dio che nell’alma infondere’. Elisabetta, che esordisce con un buon ‘ Accetta buona madre questa catena d’or ’, libera tutta la ampiezza della sua voce di soprano, la forza appassionata e le sfumature del suo sentimento nel gran duetto “Di qual’ amor, di quant’ ardore’, per poi ripiegarsi su se’ stessa e sui timbri spenti della donna rassegnata alla sua sorte. Abrahamyan, mezzosoprano, è stata una buona Eboli, vocalizzi indiavolati sempre sotto ferreo controllo, e splendida per soave leggerezza nella Canzone del Velo. Infine Tsimbalyuk, nel Grande Inquisitore: terribile, come si conviene, volto dipinto di biacca su abiti neri, spietato, inesorabile, ha i gesti meccanici della macchina infernale che in nome di Dio stritola tutti, e una buona voce di basso, cupa e poco versatile che, accompagnata dal controfagotto, tinge scena e vicenda di un buio irredimibile. Ottimo il coro, eccellenti i fiati, che hanno accompagnato sempre con delicatezza le voci, precisa, ma a volte un po’ troppo sonora l’orchestra, con qualche sofferenza delle voci. Spettacolo eccellente e molti applausi. Attilio Moro