di Giuseppe Verdi
Opera in quattro atti su libretto di A. Royer e G. Vaëz, revisione de I Lombardi alla prima Crociata
Direttore: Speranza Scappucci
Regia: Stefano Mazzonis di Pralafera
Maestro del coro: Pierre Iodice
con Marc Laho, Elaine Alvarez, Roberto Scandiuzzi, Ivan Thirion,
Pietro Picone, Natacha Kowalski, Patrick Delcour
al Teatro dell'Opéra Royal de Wallonie da 17 al 25 2017
Jerusalem, un capolavoro poco conosciuto del giovane Verdi in scena al Teatro dell'Opéra Royal de Wallonie-Liège
L'orecchio attento del melomane pretende di farsi un'idea della direzione d'orchestra di un'opera già all'attacco d'inizio ed alle prime battute. E' come per le voci: basta che i cantanti aprano bocca e ritiene di poter inquadrare immediatamente la vocalità e la portata di questa. Ma non è una legge né un assunto di infallibilità. E' solo esperienza e il vero melomane ha anche la modestia di ammettere che, in corso d'ascolto, valutando il complesso, ci si possa ricredere.
E' quello che è successo a Liegi, il 23 marzo 2017 per la messa in scena della rara Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro dell'Opéra Royal de Wallonie, prima rappresentazione dell'opera in questo teatro.
All'attacco dell'inizio, probabilmente per un ascolto aduso alle verdiane sonorità di piglio guerresco, l'impressione era stata di una certa debolezza d'impronta della direzione. Volendo essere sinceri fino in fondo, però, non si nasconde, in effetti, anche un accenno di prevenzione nei confronti delle "direttrici" d'orchestra. Si segua la Crusca? No! In questa sede il "direttore" resta al maschile, senza mancare, da donna a donna, di rispetto in alcun modo al gentil sesso. Solo una questione di principio semantico puramente italiano, visto che alla parola "direttrice", viene da associare la figura severa di una direttrice scolastica, magari anche baffuta, più che quella di un Maestro sul podio.
Punti di vista d'altri tempi? Forse...Ma, tornando all'attacco iniziale, l'impressione riguardo al Direttore Speranza Scappucci è stata, all'impronta, non del tutto positiva: la presunzione del/della melomane ha fatto sì che si pensasse anche in prospettiva alla lunghezza di un'opera come quella proposta. Avrebbe retto il direttore alla direzione e l'ascoltatore all'ascolto per tutto l'arco della lunga serata?
Errore: la melomane (femminile ammesso nell'articolo, sostantivo indeclinabile) che scrive, questa volta, si è sbagliata di netto. E si è sbagliata per un semplice motivo principale: non ha considerato quale Verdi fosse quello.
E' un Verdi apparentemente non verdiano, che, giovane, al debutto del 26 novembre 1847 all'Opéra de Paris della sua Jérusalem, opera in quattro atti, su libretto di A. Royer e G. Vaëz, revisione de I Lombardi alla prima Crociata, si è saputo "vendere" assai bene sia a Ricordi che al pubblico francese. Un Verdi il cui mimetismo e la cui capacità di mutamento e adattamento nella tessitura e nell'orchestrazione sono strabilianti. Niente a che vedere con i Lombardi, come ci si potesse aspettare: qui siamo in Francia, in ogni senso.
Ecco perché il direttore Scappucci ha iniziato così, con una morbidezza che non era mancanza di piglio: non il Verdi guerresco dei Lombardi, ma un Verdi manipolato alla francese dalle stesse abili mani verdiane. Una musica di una bellezza struggente, cantata in una lingua che non le è solita, un Verdi che raggiunge tali vertici di sonorità d'imprescrutabile bellezza solo nella versione francese del suo capolavoro: Il don Carlos. Divino don Carlos, in cui la Lacrymosa alla morte di Rodrigo, poi inserita nella Messa da Requiem, da sola suscita emozioni sublimi.
Ben fatto, allora, Maestro Scappucci: chapeau!, alla francese, ad una giovane che sa tenere in pugno l'orchestra e sa quel che vuole e come lo vuole.
La bella orchestra di Liegi ha conosciuto e messo in atto, così, i suoi tempi e le sue dinamiche, italiani sì, ma adattati allo spirito francese espresso da Verdi. Dunque non guerreschi, dunque non squadrati, ma morbidi ed elastici, pronti a divenire scattanti e marziali al momento debito, assecondati da ottimi professori in buca e da ottimi cantanti sul palcoscenico. A questo proposito, il direttore Scappucci ha anche una bella bacchetta nella direzione e nel sostegno degli interpreti: una colonna, questa giovane bionda e volitiva sul podio.
E mica facili le parti per gli interpreti. Una tessitura che prevede un soprano drammatico con le agilità facili ed un tenore con i sovracuti. Una sorta di aleggiare di Rossini, Bellini e Donizetti in una musica che a volte li richiama e compendia e che cattura dall'inizio alla fine, nella quale sono incastonati pezzi capolavoro, come il coro "O signore dal tetto natio", che diventa "Ô mon Dieu, ta parole est donc vane", assai ben eseguito dalla compagine del teatro belga sotto la direzione di Pierre Iodice. E ballabili di grande respiro musicale e visivo.
Un soprano drammatico d'agilità, dunque la Hélène di Elaine Alavarez, che ha affrontato con un coraggio da leonessa l'improba parte assegnatale. Anche se con qualche stiratura negli acuti, ha cercato di rendere le agilità verdiane in francese con voce e spirito adeguati. Efficace, comunque, anche nei duetti, insieme al tenore Marc Laho, nella parte di Gaston.
Il Laho, giocava in casa, era stato corista nella compagine del teatro belga e anch'egli ha affrontato decorosamente una partitura che avrebbe fatto girare la testa a chiunque. Un sali-e-scendi incredibile, per il quale si prosegue nel pensare che Verdi non amasse troppo i cantanti o, comunque, pretendesse davvero per le proprie opere le voci migliori del mondo.
E quale migliore voce al mondo per Roger, zio incestuoso ed eremita penitente, di quella del grande Roberto Scandiuzzi? In un ruolo variegato e che necessita di credibilità anche attoriale, i risuonatori del basso trevigiano hanno donato colori impensabili. La sua autorevolezza vocale e scenica ha conferito alla produzione una marcia in più. Magnifici i suoi gravi, profondi e personalissimi.
Bravi anche gli altri interpreti, che hanno fatto da corollario ai protagonisti: Il Conte di Toulouse di Ivan Thirion, il Raymond di Pietro Picone e tutti gli altri interpreti, in una trama intricata e certamente umanamente scabrosa, condita da tanta di quella musica meravigliosa che tre ore e passa di spettacolo sono volate in un soffio.
Grande spettacolo quello di Liegi, in una nuova coproduzione dell'Opèra Royal de Wallonie-Liège col Regio di Torino, nella quale il regista, nonché direttore del teatro, Stefano Mazzonis di Pralafera, in una direzione di scena abile e ben strutturata, ha ben riposto le proprie ambizioni.
Semplici e lineari le scene di Jean-Guy Lecat, magnificamente illuminate da Franco Marri, splendidi i costumi di Fernand Ruiz, particolarmente curati. Una produzione sontuosa, di gran livello, che depone a favore di questo teatro belga di grande tradizione.
Gran bella serata di grande musica e di grande teatro.
Natalia Di Bartolo © dibartolocritic