testo, regia, coreografia Jan Fabre
con Cédric Charron
musica di Tom Tiest
drammaturgia Miet Martens
luci di Jan Fabre e Geert Van der Auwera
Co-produzione Festival Montpellier Danse
visto il 4 febbraio 2016 al teatro Grande, Brescia.
Ci sono artisti che creano aspettative, che hanno nella loro estetica motivi per cui ci si attende che possano aprirci mondi nuovi. Fra questi si può a ragione annoverare Jan Fabre, artista complesso in cui danza, teatro si fondono in un tutt'uno con la pratica di pittore, scultore proiettato sull'abisso. E allora ecco che Attends, attends, attends (pour mon père) diviene un'occasione per misurarsi con l'inatteso, l'insondabile che caratterizza la ricerca teatrale e artistica di Fabre. In scena è il suo danzatore Chédric Charron di rosso vestito, con un grande bastone in mano, confuso in una nuvola di fumo bianco. L'immagine suggerisce immediatamente la figura di Caronte, in gioco c'è – forse – una condizione di spazio e tempo che va oltre la morte, o semplicemente dopo la morte. Come non ricordare, in proposito, che Jan Fabre per due volte è stato in coma e dal coma si è risvegliato. Ciò che accade in scena è un viaggio in questo oltre tempo e oltre spazio, un viaggio offerto a un padre che il performer chiama e che sembra vedere di spalle, forse allontanarsi da lui dopo che lo ha traghettato. L'aspetto coreutico si fonde con quello drammaturgico in cui l'attore/danzatore chiama il padre, gli dona quell'obolo necessario a pagare il traghettatore, un obolo reiterato sette volte in un continuo richiesta di poter 'cantare il suo desiderio'. Ma quel padre ad un certo momento sembra essere Jan Fabre stesso, nel momento in cui il testo dice di drammaturgia e di regia. In tutto questo l'azione procede con circolare ripetizione e scansione delle varie sezioni: danza, monologo al microfono, utilizzo del bastone ora come appendice sessuale, ora come remo, ora come palo con cui trafiggersi e dissolvimento di quelle nuvole bianche che avvolgono Chédric Charron e parte della platea. Tutto ciò rimane lì, non scatta l'emozione, la ripetizione invece che rafforzare il discorso (?) ne mette in luce la pochezza e la limitatezza. Tutto si svela fin dall'inizio e Attends, attends, attends (pour mon père) rischia di dire tutto nei primi minuti. Lo stesso tessuto coreografico non convince, si costruisce su azioni fisiche piuttosto che su un reale testo coreografico, movimenti coreutici che si esauriscono nell'apparente mimetismo animale, in una scrittura del corpo nello spazio, immagini fisiche che poi si sgonfiano, si annullano come le nuvole bianche destinate di volta in volta a riempire lo spazio. Attends, attends, attends (pour mon père) non riesce a sviluppare l'immagine di quel traghettatore circondato dal vapore infero e rimane lì, l'omaggio di Jan Fabre al suo danzatore, l'addio o il distacco del performer dalla figura paterna, o l'inconsolabile ricerca di un padre definitivamente evaporato... Non consola sapere poi – a fine spettacolo in un confronto pubblico con Fabre – che il disegno coreutico è il concentrato del lavoro che il coreografo e artista ha fatto col suo ballerino, ciò che permane è il senso di un girare a vuoto in cui non scatta la bellezza, in cui l'unico piacere sono le volute involontarie di quelle nuvole bianche che disegnano il vuoto dello spazio e non solo di esso. Peccato.
Nicola Arrigoni