testo, scenografia, direzione: Jan Fabre
coreografia: Jan Fabre, Ivana Jozic
performer: Ivana Jozic
costumista: Louise Assomo
Napoli Teatro Festival Italia
Napoli, Teatro Nuovo, dal 26 al 28 giugno 2008 (prima assoluta)
Napoli.
Chissà se Jan Fabre ha mai sentito parlare di Vincenzo Cardarelli. Sta di fatto che - all'inizio di «Another Sleepy Dusty Delta Day», il testo dell'allestimento che il Napoli Teatro Festival Italia presenta al Nuovo nella sezione «L'età nobile e il contemporaneo» - il multiforme artista belga scrive: « non voglio essere preso alla sprovvista / dalla cosiddetta morte naturale»; e il poeta di Corneto Tarquinia aveva a sua volta scritto: « Morire sì, / non essere aggrediti dalla morte», aggiungendo: «Al pensier della morte repentina / il sangue mi si gela». Ma nel caso di Fabre credo che il problema messo sul tappeto non vada preso alla lettera. Lui, d'accordo, ha dichiarato di voler affrontare il tema dell'eutanasia, e in effetti il protagonista del testo in questione - che trae titolo e argomento dalla canzone «Ode to Billy Joe» di Bobbie Gentry - è un uomo che in una lettera alla donna amata manifesta il proposito di suicidarsi. Senonché, giusta la circostanza che proprio in apertura la donna viene paragonata a «un angelo della morte», per capire occorre riandare allo spettacolo che Fabre portò tre anni fa alla Mostra d'Oltremare, intitolato per l'appunto «L'ange de la mort». Si tratta, in realtà, dell'artista: il quale partecipa del divino in quanto creatore ma muore nel momento stesso della creazione, poiché l'opera con cui s'identifica (e che lo fa esistere in quanto artista) appartiene solo agli altri, a chi ne fruisce. Il vero suicidio, insomma, è scrivere, dipingere o suonare, e la vera morte è la nascita del testo, del quadro o dello spartito. E in questo senso, l'autore e regista teatrale Fabre può fare tranquillamente propria la definizione che della morte diede il poeta Cardarelli: «l'estrema delle mie abitudini». Del resto, risulta solo una domanda retorica quella che Fabre si pone nella scia di Genet: «Tutto il teatro non è forse / preparazione alla morte?». Già, la grazia e la maledizione del teatro stanno nel fatto che è costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive. E da tutto questo deriva uno spettacolo che ha il rigore di un teorema e la leggerezza di un respiro. Alle gabbie con canarini appese alla graticcia corrispondono sul tavolato le «gabbie» (ossia le rotaie) di sparsi trenini elettrici e, nell'angolo destro del proscenio, la «gabbia» del dondolìo di una sedia a dondolo che continua (è o non è una sedia a dondolo, si è o non si è artisti?) anche quando la ragazza che vi era seduta se n'è allontanata. E a lei, alla ragazza, non restano che furie convulse contro quelle gabbie, che consentono ai canarini sempre gli stessi asfittici movimenti, e quelle rotaie, che conducono gli uomini sempre negli stessi risaputissimi posti. S'invera perfettamente, così, la convinzione che Cardarelli pose in epigrafe ai suoi versi: «La speranza è nell'opera. / Io sono un cinico a cui rimane / per la sua fede questo al di là. / Io sono un cinico che ha fede in quel che fa». E bravissima è la performer Ivana Jozic. A un certo punto, l'altra sera, per il caldo s'è infilata una bottiglia di birra ghiacciata nello slip. Un gioco, anch'esso, per l'appunto, estremo. O insensato, come - lo ricordo ancora una volta - Blanchot definì quello di scrivere.
Enrico Fiore