regia Adriano Sconocchia
scritto e diretto da Adriano Sconocchia
con Maria Grazia Bordone, Mauro Lorenzini, Manuel Ricco
Roma, Ar.Ma Teatro 1-2 marzo 2017
Alla fermata dell'autobus un giovane bancario (Ricco) in carriera aspetta impaziente il mezzo – non ha trovato un taxi ed è in ritardo per la cena, alla quale ha invitato un diplomatico ed un alto prelato – mentre riceve e fa trafelate telefonate. Vicino alla fermata vive tra i cartoni un barbone (Lorenzini) al quale lui lascia cadere 20 euro di elemosina; il vagabondo si alza e, bevendo da una bottiglia di vino, gli tira i soldi e comincia ad insultarlo. Lui reagisce flebilmente ma l'altro lo incalza e, via via, lo tempesta di domande. Per levarselo di torno, lui gli allunga una banconota da cinquanta, pregandolo di accettare. Lui, dopo essersi accertato che non sia fasulla, la prende ma gli dice che se vuole davvero fare qualcosa per lui gli deve regalare un quarto d'ora del suo tempo. Il bus non arriva e il giovane, rassegnato (e forse anche incuriosito), accetta. Viene fuori che il barbone era stato un importante scienziato (un ingegnere astrofisico), che veniva da una famiglia modesta (il padre, barista, non era mai riuscito a pronunciare correttamente i suoi titoli accademici) e che, perso il lavoro, era precipitato in un abisso di alcool e perdita di dignità, tanto da perdere anche la famiglia: la moglie se ne era andata, dopo aver dato il loro figlio in adozione. Il bancario, che era stato a sua volta adottato, reagisce debolmente al fiume in piena di quella confessione ma si lascia andare anche lui nel raccontare di quanto falsa ed umiliante sia la sua vita di carrierista, imprigionato in un eterno sorriso di finta vitalità ed ottimismo e circondato da mediocri da ossequiare. Arriva la moglie (Bordone) del senzatetto e racconta la propria versione: il marito beveva troppo anche prima del tracollo (per questo aveva perso il lavoro), per qualche tempo era andato a lavorare nel bar del padre ma non aveva retto al disagio di averlo deluso e da un incendio scoppiato nella loro casa il loro bambino si era salvato per miracolo e lei, trent'anni prima, lo aveva affidato ad una famiglia adottiva ma, continua, non lo hanno perso di vista: lo vedono tutti i giorni, sbirciandolo in banca o lì alla fermata. Dopodiché la donna se ne va, trascinando con se, dolcemente il marito e il giovane rimane da solo, confuso ed angosciato (forse ha incontrato i suoi veri genitori o forse ha sognato).
Il vagabondo, come spaccato primario dell'umanità, è una costante nel racconto teatrale e cinematografico: si va dai Picari spagnoli, al clown Augusto della tradizione circense, alle maschere di Charlot e Ridolini, a Stanlio e Ollio, ad alcuni film di Totò (Totò a Parigi, Il coraggio), alla grande tradizione francese del clochard (la commedia Boudù salvato dalla acque di Rene Fauchois, portato sullo schermo da Jean Renoir, con uno splendido Michel Simon, Quando torna l'inverno, film di Henry Verneuil con Jean Gabin, L'inverno ti farà tornare di Henry Colpi), né va dimenticato il versante americano (Annie dei vagabondi di James Prideaux, Picnic di William Inge, La calata di Orfeo di Tennessee Williams, questi ultimi divenuti film di successo, il primo con lo stesso titolo, il secondo intitolato in Italia Pelle di serpente) fino all'esempio più citato: Aspettando Godot di Samuel Beckett. Sconocchia ha ben presente questa tradizione e fa del suo vagabondo una sorta di demiurgo dell'angoscia nascosta di un uomo in carriera. Lui stesso è un bancario (è pressoché impensabile, ormai, vivere solo di teatro) ma non preme l'acceleratore nella direzione (scontata) di uno spaccato sociale: ci racconta le mille sfaccettature dei nostri (di tutti noi) fallimenti, ridandoci una dolente e sostenuta rassegnazione; aiutato da tre bravi attori (in particolare, la fragile e fortissima moglie della Bordone chiude il dramma con grande pathos).
Antonio Ferraro