di Falk Richter e Nir de Volff
Regia: Falk Richter
Coreografia: Nir de Volff
Con: Telmo Branco, Gabriel da Costa, Johannes Frick, Steffen Link, Tatjana Pessoa, Vassilissa Reznikoff, Christian Wagner
Scena e costumi: Falk Richter e Nir de Volff
Drammaturgia: Tobias Schuster
Luci: Oliver Mathias Kratochwill
Berlino, Maxim Gorki Theater, 16 e 17 giugno 2016
Mentre gli spettatori ancora fluiscono nella sala, sul palcoscenico qualcosa è già iniziato: gli attori si muovono sulla scena, scambiandosi di tanto in tanto qualche parola, in attesa che il pubblico si accomodi, a indicare forse che ciò che accade in teatro non è così diverso da ciò che c'è là fuori, che tra vita reale e rappresentazione della stessa non esiste una chiara linea di demarcazione. Il regista Falk Richter già aveva fatto uso di questo espediente narrativo in Fear, spettacolo satirico sul populismo di destra in Germania che gli valse qualche denuncia da parte delle personalità politiche prese di mira nella messa in scena; ed è anche una strategia spesso utilizzata negli spettacoli del Maxim Gorki Theater di Berlino, basti pensare a Verrücktes Blut di Nurkan Erpulat e Jens Hillje. A rinforzare ulteriormente l'effetto di realtà della messa in scena è il tono personale di Città del Vaticano, in cui attori e perfomer rappresentano se stessi, raccontando le propria singolare esperienza di religione, chiesa e fede.
Nel suo nuovo spettacolo Richter punta il dito contro la cristianità e il Vaticano quali presunte cifre distintive dell'Europa moderna. Ma quanto contano realmente nella nostra società la religione e i valori cristiani? La fede influenza il nostro modo di vivere? I valori cristiani con cui siamo stati educati e cresciuti costituiscono davvero il nostro bagaglio culturale di oggi? Questi sembrano essere i quesiti cui lo spettacolo di Richter cerca una risposta partendo da un brainstorming generale sul termine "Vaticano", "uno dei più antichi Stati del mondo, che non ha mai dato i natali a nessuno". I sette attori in scena sono giovani europei rappresentanti di un continente vario e multiculturale: nati in famiglie internazionali, sono poliglotti e vivono la propria vita spostandosi continuamente da un Paese all'altro. Ne conseguono identità e concezioni di patria complesse, non classificabili attraverso categorie predefinite. Al centro di tutto si collocano riflessioni sui concetti di uomo e donna, sulle relazioni amorose nella società contemporanea e soprattutto sull'omosessualità, riflessioni queste ultime che dopo la strage di Orlando del 12 giugno 2016 risuonano tragiche. L'ensemble di attori sembra essere consapevole del più profondo valore di cui vengono investite le parole dopo Orlando, forse perché Città del Vaticano è uno spettacolo tenuto volutamente in costante work in progress. È a questo punto che la complessità identitaria degli europei di oggi si confronta con la paura dilagante nel continente: come già in Fear, il regista porta in scena un monologo su un'Europa che vuole mantenere il controllo su tutto, spaventata da una complessità e una varietà sociale e culturale che dovrebbero essere invece considerate una ricchezza e una forza, sembra volerci dire Richter. A poco a poco emergono i collegamenti tra cristianità, omofobia, populismo e paura: Città del Vaticano finisce così per presentarsi come una continuazione, un'appendice di Fear, sebbene decisamente meno politico.
Nello spettacolo non mancano i riferimenti visivi: il rosso e il bianco sono i colori dell'abbigliamento degli attori, tonalità che risvegliano un immediato collegamento con il vestiario di papi, vescovi e preti, in definitiva con i personaggi che popolano il Vaticano. Alle domande, alle risposte, alle parole si accosta poi il movimento: corpi che danzano, che si muovono concitatamente prima, con lentezza poi; corpi femminili e corpi maschili; corpi che muovendosi raccontano storie, quelle dei performer che inscenano se stessi. La stretta cooperazione tra il regista Richter e il coreografo de Volff e il tono strettamente personale dello spettacolo si delineano così come cifre distintive dello stesso: Città del Vaticano è in definitiva uno spettacolo estremamente sperimentale, non classificabile per genere e basato sull'interdisciplinarità. Nonostante il tono satirico e dissacratore che domina la messa in scena, Richter non rinuncia sul finale a una nota visionaria, quasi a volerci ricordare che il suo teatro non intende essere sterile polemica, ma vuole servire da stimolo per sognare e impegnarsi per una società in cui la diversità venga valorizzata.
Gloria Reményi