di e con Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi
scene e costumi Cinzia Muscolino
scenotecnica Pierino Botto
disegno luci Roberto Bonaventura
aiuto regia Veronica Zito
collaborazione artistica Ivana Parisi, Simone Carullo, Giovanna La Maestra
e con la collaborazione del Centro Diurno di Salute Mentale "Il Camelot", del Teatro Vittorio Emanuele e della "Casa del Con"
produzione Carullo-Minasi e La Corte Ospitale
Vittorio Emanuele di Messina dal 3 al 5 febbraio 2017
I manicomi, si sa, erano diventati dei lager. Ecco perché nel 1978 grazie a "Psichiatria democratica" e a Franco Basaglia - autore fra l'altro d'un libro illuminante come "La maggioranza deviante" edito da Einaudi, cui collaborò pure la moglie Franca Ongaro - fu approvata la legge n.180 che imponeva la loro chiusura. O apertura se si vuole, visto che tutti i malati dovevano sloggiare dai loro capannoni. Fu davvero una rivoluzione nel settore sanitario, in parte incompleta perché alla chiusura non seguì subito la realizzazione delle strutture, i cosiddetti servizi di igiene mentale, utili a continuare a curare i malati. Sia come sia l'Italia ad oggi è l'unico paese ad avere abolito gli ospedali psichiatrici. Questo prologo mi serve ad introdurre Delirio bizzarro scritto-interpretato-diretto con garbo, ironia e lievità dalla coppia nostrana Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo, che qui hanno i nomi di Sofia e Mimmo, frutto d'un lavoro di ricerca sul campo in un "Centro diurno di salute mentale" (identificabile all'interno dell'ex-manicomio di Messina diretto da Matteo Allone, nome ampiamente citato nella pièce) il cui progetto ha vinto il "Forever Young" (capita spesso alla coppia di vincere dei premi prestigiosi per i loro spettacoli) quale sostegno alle compagnie teatrali italiane che esplorano i nuovi linguaggi contemporanei. La scena minimale di Cinzia Muscolino (suoi pure i costumi) è composta da pochi arredi attorno ad una bianca-piccola-sghemba casamatta che Sofia-Minasi chiama il "Castello". Non quello kafkiano o in stile gotico come in alcune fiabe disneyane, piuttosto accostabile, nella mente dei due personaggini, a Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, in cui Mimmo-Carullo raffigura "il matto" dei tarocchi e Sofia-Minasi è il suo doppio, nel senso artaudiano, "la matta" appunto, che non c'è fra i tarocchi, ma è presente nelle carte siciliane con l'immagine del re di cuori. All'inizio è Sofia a muoversi con un piglio manageriale, pronta ad organizzare una recita e invitare persone appellandole per nome, ricevendo spesso sul cellulare le telefonate del dottor Allone che le dà delle dritte sanitarie e della garrula madre che vorrebbe si sposasse al più presto avendo già comprate le bomboniere raffiguranti dei vasetti con ficodindia. Mimmo è un "matto" tranquillo. Guarda le stelle, si fa le sigarette senza fumarle, pulisce le scarpe con la saliva sporcandosi le mani, va in bagno almeno quattro volte al giorno e pare sia andato di testa quando al liceo una compagna l'ha respinto. Adesso è lì, frequenta il centro perché gli piace mangiare, ascolta le telefonate di Sofia, la quale a sua volta lentamente svelerà i suoi trascorsi familiari, allorquando da bambina la madre la metteva nel letto a dormire con le sole mutandine assieme al padre, al fratello e il cugino e come alcuni episodi, che possiamo solo immaginare, l'abbiano segnata al punto da farla dormire poi con tutti i vestiti addosso. Si capisce così che anche Sofia ha avuto nel passato dei problemi psichiatrici, forse meno gravi di Mimmo, o che li stia superando trovando nel centro nuovi stimoli e nuovi impulsi di vita, un destino tuttavia che s'incrocia con quello di Mimmo. Rispetto ai lavori precedenti sembra che la drammaturgia di Carullo-Minasi, frutto di confronti e scambi con pazienti di strutture psichiatriche, queste sì davvero devianti rispetto ai malati, abbia subito un'influenza del teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, lì dove in particolare le battute finali dell'uno vengono ripetute i modo ossessivo. Dico questo non in senso negativo, ma per affermare come Messina sia diventata una città in cui il Teatro cresce in modo autonomo senza più avere come referenti i vari Beckett, Pinter, Kafka. Un'ultima notazione. Per il tipo di pièce, Delirio bizzarro, era meglio metterlo in scena in uno spazio più piccolo come la Sala Laudamo e non al Vittorio Emanuele che ha un palcoscenico enorme e dispersivo.
Gigi Giacobbe