di Joyce Carol Oates
regia Francesco Frongia
con Ida Marinelli, Elena Ghiaurov, Cinzia Spanò e Osvaldo Roldan (tanguero)
traduzione Luisa Balacco
costumi Ferdinando Bruni
produzione Teatro dell'Elfo
Teatro dell'Elfo, Milano, 30 novembre 2016
La famiglia e le sue nascoste ambivalenze
Quelli dell'Elfo, nella tradizione critica della società americana che li ha contraddistinti in altri spettacoli, portano in scena "L'eclisse", atto unico di Joyce Carol Oates, considerata una delle più prolifiche autrici statunitensi.
L'interno borghese di un appartamento ospita Muriel, ex insegnante in pensione affetta da Alzheimer, e sua figlia Stephanie, lanciata nella carriera politica. Muriel è persa nei suoi labirinti mentali tra la ricerca di un amante fantastico e le manie di persecuzione che la vedrebbero vittima della caccia inesistente di un provveditorato. Stephanie è divisa tra il difficile accudimento di una madre indomabile e le ambizioni professionali. Sullo sfondo, l'ombra di un'assistente sociale e quella di un padre assente mai conosciuto dalla figlia "accarezzano" un finale secco e divisivo, ai confini del sogno, in cui un affascinante tanguero decreterà un vincitore. Solo una delle due donne si salverà lasciando l'altra irrisolta e "legata" a una prigione esistenziale.
La Oates, restituitaci da Francesco Frongia, ci parla della malattia mentale, in un'ottica salvifica e purificatrice, usandola come pretesto per farci entrare più profondamente nelle dinamiche perverse che attraversano la famiglia. Perché, se da un lato, la salute psichica di Muriel, interpretata dall' "adolescente" e frizzante Ida Marinelli, è l'elemento di partenza che ostacola la comunicazione fra lei e la figlia, rendendole sole, dall'altro, diventa tante altre cose. Per Muriel diventa anche, nella forma esasperata e pericolosa dell'immaginazione lungo un crinale pericoloso vicino al distacco dalla realtà, un antidoto alla propria solitudine. Per Stephanie, interpretata dalla recitazione ordinata di Elena Ghiaurov, diventa, oltre a un muro invalicabile, la sofferenza che non vuole accettare, che fa finta di non vedere ma soprattutto l'alibi per non emanciparsi dalla famiglia e diventare una donna autonoma. Il loro rapporto, a volte comico (divertente l'episodio del pugilato in tv), è quello fra una madre che si diverte nell'involontario ruolo della bambina e una figlia che si dispera per l'incapacità di assumere il ruolo della madre nei confronti di chi l'ha partorita insieme a quello della donna in carriera, con conseguenti sensi di colpa. E poi c'è l'assistente sociale ben reso dall'energia recitativa di Cinzia Spanò e c'è la figura del padre assente che rimanda alla caduta contemporanea del ruolo paterno con le imprevedibili conseguenze sui figli (e forse delle insicurezze esistenziali di Stephanie). È un ring emotivo, non sempre sostenuto, però, dal ritmo in scena, quello a cui assistiamo dietro al buco della serratura di una porta nella regia voyeuristica e pulita di Frongia. Amore e odio, protezione e autonomia, accettazione e rifiuto sono le ambivalenze che investono le due protagoniste, allargandoci la visuale sulla difficoltà di essere una famiglia soprattutto quando è attraversata dalla malattia. Sono questi i tratti emergenti di una drammaturgia che costituisce l'elemento più importante e dominante di uno spettacolo piacevole e applaudito dal pubblico.
Andrea Pietrantoni