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EDIPO A COLONO - regia Daniele Salvo

Edipo a Colono Edipo a Colono Regia Daniele Salvo

di Sofocle
Traduzione di Giovanni Cerri, Regia di Daniele Salvo
Impianto scenico di Massimiliano e Doriana Fuskas, Costumi di Nicola Luccarini
Musiche di Marco Podda, Movimenti di Dario La Ferla, Progetto luci di Elvio Amaniera
Con Giorgio Albertazzi, Roberto Caronia, Michele De Marchi, Carmelinda Gentile, Massimo Nicolini, Maurizio Donadoni, Giacinto Palmarini
Corifei, Coro di anziani, Le Eumenidi, Sodati
Produzione: INDA di Siracusa per il XLV Ciclo di Rappresentazioni Classiche 2009

Il Messaggero, 16 maggio 2009
www.Sipario.it, 13 maggio 2009
“Edipo a Colono”, la rivincita
dell’uomo perseguitato dal Fato

Edipo a Colono è firmato da Sofocle, forse il più completo dei Tragici greci. Ma non è un “bel testo”. E’ invece un paradigma della verità profonda, del disvelamento, dell’eucarestia pagana che chiude benignamente l’infelice vita del figlio di Laio, vincitore della Sfinge, parricida senza saperlo, marito della propria madre e fratello dei propri figli per volere del Fato, senza nulla sospettare. Rappresentata postuma nel 401 a.C. l’opera prosegue il racconto sancito dall’Edipo re. E assicura protezione e pace allo sventurato che, guidato dalla figlia Antigone, giunge cieco migrante a Colono, sobborgo della civilissima Atene governata da Teseo. Fino a una sorta di assunzione di Edipo, in corpo ed anima, fra gli dèi.
Al Teatro Antico di Siracusa la tragedia è andata in scena con la regia di Daniele Salvo. Gran protagonista Giorgio Albertazzi, circondato da bravi colleghi quali Maurizio Donadoni (autorevole Creonte), Giacinto Palmarini (stentoreo Polinice), Massimo Nicolini (Teseo), Roberta Caronia (vibrante Antigone), Carmelinda Gentile (Ismene). Spettacolo apparentemente spoglio, in realtà pieno di elementi. La scena titanica di Doriana e Massimiliano Fuksas (un tronco di cono rovesciato di lamina riflettente) è completata, al centro della cavea, da una montagna di sale che funge da collina delle Eumenidi. Di lato, attorno a un alberello di ulivo, poche suppellettili di terracotta. Un blocco pietroso aspetta Edipo, per fargli da sedile. E gli anziani di Colono, sparpagliati nella plaga, strenui nel proteggere lo straniero dalle insidie di Creonte, vagano attorno alla vicenda, la commentano brandendo i loro bastoni e tremano, sotto i tuoni e i lampi di Zeus, come scossi da elettricità dionisiaca. Poi, invocato dallo straniero, ecco Teseo a cavallo: un’entrata da allestimento lirico che il pubblico osanna. E le Eumenidi, che sorgono a tratti dalla collina di sale avvolte in guaine di lattice color carne, paiono nude, la maschera sul volto, le lunghe chiome corvine ad accentuare ogni movimento. Ancora: bagliori di fuoco e di tramonto, il cupo suono d’archi delle musiche di Marco Podda, soldati armati di fiamme, rombi di tempesta, timor panico, lamenti, sussurri, evocazioni.
Lui, Edipo/Albertazzi, è là in mezzo, e sembra solo. La benda nera gli vieta lo sguardo, non la tremenda sobrietà del dolore, non la fatale esigenza della giustizia, non la capacità di offrirsi, carne a sangue, quale entità protettrice della città ospitale, del giovane re xenofilo che lo strappa alla vendetta di Tebe e alle pretese di Polinice. L’attore è là, solo e diverso nella sua recitazione quotidiana, per questo lancinante e credibile più dell’urlo. E’ là e stringe a sé il pubblico parlando pianamente di una morte che non è tale, di un luogo dell’assunzione al quale approderà per farsi materia di comunione salvifica. E’ là, eroe della tragedia e insieme uomo comune che la gente accompagna fra le Eumenidi, alla fine, con l’affetto riservato ai consanguinei, ai cari, agli amati. Una lezione di modernità interpretativa che fa bene al teatro. L’intero cast, del resto, respira con il maestro e si adopera per costruirgli all’intorno l’alveo giusto, la miglior culla possibile.
Traduzione di Giovanni Cerri.

Rita Sala

L’Edipo a Colono di Sofocle non sembra neppure una tragedia. Piuttosto lo svolgimento della seconda tranche di vita di questo non-colpevole personaggio che senza volerlo, solo per uno sghiribizzo degli dei, s’è trovato ad uccidere il padre Laio, sposare la propria madre Giocasta e diventare fratello dei propri quattro figli: due femmine, Antigone e Ismene e due maschi, Eteocle e Polinice. Una sorta di giallo la sua vita, sufficiente per andare in analisi su un lettino di Freud o di Lacan, ma che va avanti stancamente e meditabondo senza più poter godere della vista delle sue pupille perché accecate con uno spillone strappato dalle vesti della moglie-madre. Adesso è lì che vagola nel luogo del titolo vicino ad Atene, Edipo, con benda nera agli occhi e vesti bianche quello d’uno splendido Giorgio Albertazzi, “ le cui parole che dirà avranno occhi per vedere”, aggrappato alle spalle di Antigone, di nero vestita e un po’ tarantolata quella di Roberta Caronia , anelando solo ad un luogo dove possano riposare per sempre le sue stanche membra. E qui, a differenza dell’Edipo Re in cui tutto è già avvenuto, accadono in diretta una serie di avvenimenti, resi abbastanza teatrali da Daniele Salvo, forse nella sua più impegnativa regia, da cui comunque esce vincente per la varietà di soluzioni che vi ha trovato: trattando e vivacizzando l’opera secondo alcuni stilemi cinematografici, rendendo ancor più viva e luccicante la mega-lama dei coniugi architetti Fuskas, colorandola nei momenti clou con tinte rosa e rossastre, grazie alle luci di Elvio Amaniera e ritmando alcuni passi  con musiche onomatopeiche (quelle di Marco Podda) che richiamavano il mare, il vento e altri suoni della natura. E non solo. Salvo ha agghindato il coro degli anziani, capitanati da Antonietta Carbonetti, con delle maschere di lattice che ne deformavano i contorni del viso: ha collocato le sette Eumenidi sopra un montarozzo di sabbia bianca, facendo loro lambire e toccare i contorni di quell’acciaioso monolite kubrickiano da 2001 Odissea nello spazio, tinteggiando di rosso le loro bocche aperte, appiccicando alla testa delle  lunghe chiome nere da cavalli selvaggi svolazzanti lungo le spalle e vestendole con calzamaglie color carne da farle sembrare nude (i costumi erano di Nicola Luccarini). E ancora: l’ingresso del re d’Atene del convincente Teseo di Massimo Nicolini, in groppa ad un cavallo ben guidato, preceduto da un gruppo di soldati di corsa al ritmo di tamburi con lancia in resta, mentre i tre bracieri cominciano ad accendersi sul far della sera sulla scena bianca: il ratto di Antigone e Ismene ad opera d’un Creonte pelato con zazzera lungo il collo e irriconoscibile quello di Maurizio Donadoni, che poi le restituirà al proprio padre per l’intervento di Teseo: e infine il trapasso di Edipo nell’Ade, reso con gli effetti speciali d’una fossa illuminata e fumante che si apriva ai suoi piedi, con le Eumenidi che lo avvolgevano in un abbraccio mortale di non ritorno.  E’ una delle poche volte che vedo un Albertazzi misurato, saggio, per niente mattatore, senza una piega il suo recitar poetico, applauditissimo alla fine, assieme a tutto il numeroso cast, di cui è giusto ricordare Michele De Marchi nel ruolo d’un cittadino di Colono, l’Ismene di Carmelinda Gentile, il Polinice di Giacinto Palmarini, apostrofato dal padre con “vattene, non vali uno sputo”, e i tre corifei, Francesco Alderuccio, Francesco Biscione, Davide Sbrogiò. Lunghi applausi calorosi alla fine e ovazioni per tutti.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Giovedì, 19 Settembre 2013 08:35

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