di Molière
adattamento e regia Monica Conti
traduzione Cesare Garboli
con (personaggi e interpreti):
Alceste - Roberto Trifirò
Filinte - Davide Lorino
Oronte - Nicola Stravalaci
Celimène - Flaminia Cuzzoli
Eliante - Angelica Leo
Arsinoè - Stefania Medri
Acaste - Stefano Braschi
Clitandro - Antonio Giuseppe Peligra
Pianista - Monica Conti
scene Andrea Anselmini
costumi Roberta Vacchetta
musiche Giancarlo Facchinetti
luci e suoni Rossano Siragusano
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale
Al Teatro Fabbricone di Prato, dal 12 al 15 aprile 2018
PRATO - L'individuo che ama la verità, che non accetta di rinnegarla in nome di ipocrisie di comodo e vili convenzioni sociali, è amaramente destinato alla solitudine. A questa conclusione giunge Molière scrivendo Il Misantropo, uno dei suoi testi più cupi e caustici.
In una sola, campale giornata che si rivelerà decisiva per la sua esistenza, Alceste giunge allo scontro finale con l'ipocrisia del genere umano, dopo aver scoperta la vacuità della donna amata, Celimène, ed essere assurdamente condannato in una causa penale della quale non conosciamo i dettagli, ma per via indiretta si comprende come l'uomo fosse del tutto innocente. Per questa ragione non intende perorare la sua posizione, essendo evidente dove stiano il torto e la ragione. Con Il Misantropo Molière scrive una commedia sociale amarissima e affatto comica, nella quale Alceste è convinto assertore della necessità di essere onesti, con se stessi e con gli altri, anche a rischio di risultare scomodi o sgradevoli, e aborre i rapporti falsi, improntati all'amicizia di comodo, e persino quando si scrivono pensieri o si compongono versi, questi devono nascere da dentro, altrimenti tradiscono soltanto vanagloria e insano amore per una fatua notorietà. Su questa conversazione con l'amico Filinte si apre lo spettacolo, e quest'ultimo si dimostra più tollerante, o forse più debole di Alceste, cercando di persuaderlo come nei rapporti sociali sia necessaria una certa indulgenza,
Ad amareggiare l'esistenza di Alceste, anche l'amore per Celimène, alla quale rimprovera un'eccessiva compiacenza verso i molti uomini che apprezzano la sua bellezza.
Monica Conti ha compiuto un buon lavoro di sintesi sul testo originale, offrendone al pubblico la graffiante sostanza, ovvero quella riflessione di carattere etico che contrappone l'amore per la verità all'ipocrisia.
Lo spettacolo si svolge su due piani: sul primo, Alceste, eroe solitario che predica nel vento, coerente nell'applicare i suoi principi, e rischiando lo scontro con Oronte, al quale fa capire di non apprezzare i suoi sonetti, che suonano falsi e convenzionali. Allo stesso modo, compromette il suo rapporto con Celimène, per quella "pretesa" di onestà che la donna scambia per soffocante gelosia.
In secondo piano, Filinte, Oronte, Acaste, Citandro, formano il "coro greco" maschile degli antieroi, perfetta antitesi morale di Alceste: se questi è uno stoico, disposto a lottare e sacrificarsi per obiettivi elevati di carattere etico, ottenibili solo nel lungo periodo (come il vedersi riconoscere un'esistenza esemplare), gli altri possono essere considerati epicurei, disposti ad accettare le comode ipocrisie del quotidiano pur di ottenere subito se non proprio l'appagamento, almeno la tranquillità d'animo. Al fianco del coro maschile, quello femminile, Eliante, Celimène, Arsinoè. Spicca la rivalità fra queste ultime, in fondo due volti della stessa proverbiale medaglia: la seconda rimprovera alla prima la sua vita dissoluta, le troppe relazioni che le ve gono attribuite, mentre Celimène controbatte con femminile perfidia che se lei, giovane e bella, suscita interesse negli uomini, in fondo è comprensibile, mentre chi non ha queste doti, non può che rinchiudersi in una vita necessariamente morigerata e irreprensibile, anche se forse solo di facciata, poiché voci sui maltrattamenti che Arsinoè riserva alla servitù corrono comunque di bocca in bocca. Un dialogo che giunge ben presto allo scontro aperto fra due "gatte arrabbiate", che senza nominarsi si scambiano comunque accuse a vicenda. "Scottata" dalla sconfitta rimediata, Arsinoè decide di aprire gli occhi ad Alceste e a tutti i suoi rivali, diffondendo le lettere che Celimène aveva spedite a ognuno di loro, nelle quali scrive di amare il destinatario ed esprime forti critiche sugli altri. La commedia si svolge con un alternarsi di scene dialogate, da un lato le dissertazioni di Alceste, dall'altro il caso di quella che con termini moderni si potrebbe chiamare la "società dello spettacolo", persa in pettegolezzi, gelosie, vendette.
Si arriva alla catarsi finale, in cui Celimène viene smascherata, e Alceste apprende di aver persa la causa e di essere passibile di arresto. Provato da quest'ultima vicenda, decide di abbandonare il consorzio sociale, di ritirarsi a vita eremitica, avendo persa la fiducia nell'umanità. È però disposto a perdonare Celimène, se questa fosse disposta a seguirlo nel suo esilio volontario. Al suo rifiuto, comprende una volta di più di essere irrimediabilmente solo nella sua lotta, e di non avere altra scelta se non allontanarsi da tutto e da tutti.
Il titolo lo taccerebbe di misantropia, ma è una scelta provocatoria di Molière, che appunto fa apparire paradossalmente colpevole colui che in realtà è innocente. È la società ad essere infetta, e gli adulatori sono i veri responsabili dei vizi altrui, che apprezzano e incoraggiano per ragioni di comodo, senza avere né onestà né abbastanza amore per il prossimo da additarglieli a cuore aperto.
Monica Conti allestisce uno spettacolo sobrio, senza orpelli, quasi dimesso, in modo da lasciare spazio alla parola, al pensiero di Alceste, cui Roberto Trifirò presta la forza dimessa dell'onestà che combatte sapendo di avere ragione, accettando con rassegnazione quelle sconfitte che non dipendono da sue colpe. A lui si contrappone una "muraglia umana" chiassosa, avida, meschina, vanagloriosa. Un'interpretazione corale intensa ed efficace, per una rilettura di Molière molto attuale, che punta il dito contro la società dello spettacolo, contro il mercimonio della propria immagine e la vuotezza reale che invece vi sottende. Alceste, che sceglie l'esilio, è malapartianamente libero in una prigione, mentre gli altri restano schiavi di convenzioni e ipocrisie. Accadeva nel XVII Secolo, e accade ancora oggi, nella miserevole era dei social network, della televisione e della corruzione, che ai principi morale preferisce il denaro e le luci della ribalta.
Niccolò Lucarelli