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MOI - regia Alberto Giusta

Lisa Galantini in "Moi", regia Alberto Giusta. Foto Donato Aquaro Lisa Galantini in "Moi", regia Alberto Giusta. Foto Donato Aquaro

Monologo dedicato a Camille Claudel
di Chiara Pasetti
con Lisa Galantini
Regia: Alberto Giusta
Costumi: Morgan - Maison Clauds Morene
Elementi scenici: Enza Tarantino 
Realizzato dall’Associazione Culturale Le Rêve et la vie in collaborazione con Tieffeteatro Milano
Rassegna teatrale In & Out 
Grotte di Borgio Verezzi - Via Battorezza, 5
30 maggio 2025

www.Sipario.it, 3 giugno 2025

In coincidenza con la seconda stagione del Festival Teatrale di Borgio Verezzi con la conduzione affidata a Maximilian Nisi, parte, quasi come ampia ouverture al Festival, la Rassegna In & Out, interamente dedicata alle donne, con un ciclo di cinque spettacoli, tutti ambientati nel suggestivo spazio delle grotte di Borgio. 

Venerdì 30 maggio lo spettacolo proposto consisteva in un monologo dal titolo Moi, nel quale si ripercorrevano momenti della vita e dell’arte di Camille Claudel, sorella maggiore del poeta e diplomatico Paul. Da qualche tempo la figura di Camille sta trovando in ambito artistico il riconoscimento che merita e, nel 2017, a Nogent-sur-Seine si è inaugurato un museo interamente dedicato a lei. La parabola artistica della più famosa scultrice della Francia a cavallo tra Otto e Novecento conosce una brusca frattura nel 1913, quando, a seguito della morte del padre, la famiglia decide di farla internare nel manicomio di Montfavet da cui non uscirà più e vi morirà, nel 1943, all’età di 78 anni.

Lo spettacolo drammatizza la vicenda artistico-biografica cogliendo, come turning point proprio il fatidico anno dell’internamento. Per cui nella prima parte del monologo vediamo Camille che esibisce sfacciatamente e in modo provocatorio la propria arte e la propria personalità irriverente; e nella seconda ritroviamo la stessa più composta, quasi placata, rinchiusa a Montfavet dove rinuncia volontariamente alla propria arte e quindi alla vita. 

L’ampio monologo, in cui una bravissima Lisa Galantini dispiega un campionario mirabile di arte scenica, presenta ex abrupto la figura di quest’artista incapace di conformarsi alle regole e pervasa dal sacro fuoco dell’arte. La Camille libera e disinibita, vista all’interno del suo atelier, che attraversa la vita culturale parigina stringendo amicizia con Debussy e Rodin (con quest’ultimo inizierà anche una tormentata relazione), si presenta in scena con tutta la sua personalità dirompente ed urticante, con un atteggiamento che sarebbe stato concesso ad un artista uomo, ma che risultava insopportabile in una donna nella Francia di fine Ottocento. Invece Camille combatte e rivendica il suo essere donna e artista al tempo stesso, anzi, soprattutto artista, abbattendo le barriere ideologiche che non consentono ad una donna di esibire il proprio talento e pagando in prima persona le proprie scelte. Chiara Pasetti, nel corso di una breve intervista a fine spettacolo, affermava di essere stata molto colpita dall’arte della Claudel e di aver studiato per due anni la produzione artistica e la vita di Camille. Il risultato è un libro, uscito nel 2016 dal titolo Mademoiselle Camille Claudel e Moi (edito dalla torinese Nino Aragno) in cui coesistono una biografia della scultrice con il testo teatrale. L’approccio al soggetto parte da una riflessione estetica, dall’opera, ma poi, nella drammaturgia, il personaggio tende ad erompere, anche grazie al temperamento di Lisa Galantini che riesce attraverso l’uso attento delle tecniche teatrali a infondere carne e sangue ad un personaggio teatralmente non facile né banale. C’era, in effetti, il pericolo di cadere in una «recita della follia» che mettesse meramente in risalto le doti attoriali, ma ciò viene evitato alternando la paranoia e la dissociazione della scultrice a tratti di estrema lucidità che la portano a lanciare uno sguardo acuto e premonitore sulla società a venire. Camille truccata, vestita con biancheria intima, aggressiva e anarchica, affonda la lama della dissacrazione e della creatività nel corpo vivo della società benpensante di ieri (ma anche di oggi), protestando al mondo la propria grandezza di artista, artista prima ancora che donna. Ed è attraverso due coordinate che la Galantini, con la regia di Alberto Giusta, modella il personaggio, piegando il testo sul versante dell’espressività: il gesto e la voce. L’uso della voce ci ha particolarmente colpito poiché attraversa tutte le gamme dell’espressione (e della vita), passando dal dolore alla gioia, dalla rabbia all’ironia e alla follia, fino ad approdare, nella seconda parte, quando Camille è internata, ad una recitazione vocalmente controllata, tendente al dimesso: si chiude in un parlato quasi monocorde la parabola dell’artista che, una volta portata via dal suo atelier, rinuncerà alla scultura. Il gesto, dietro cui si intravvede un intenso lavoro di regia, ci mostra un uso totale del corpo, una continua lotta, davvero fisica, tra Camille e il mondo: la scultrice, fino a quando è nel suo atelier, è sempre impegnata a scolpire, sempre in un rapporto di distruzione/costruzione della figura (compresa la sua di artista): modella e si modella, lancia oggetti e tira martellate come se il mondo e le persone fossero un’estensione dell’atelier. Camille non conosce un modo di rappresentare il mondo se non attraverso l’arte e lei stessa si fa oggetto e soggetto artistico in un divorante rapporto gestuale di controllo sulla materia-mondo. Le stesse persone vengono così travolte (come anche il pubblico), e subiscono l’impatto distruttivo e creativo della scultrice che conosce e modella il mondo con il proprio gesto e il proprio corpo. Nella seconda parte, Camille vestita con abiti borghesi la ritroviamo chiusa in uno di quelle strutture così ben indagate da Michel Foucault di cui ci si serviva per liberarsi dei parenti o familiari che davano segni di squilibrio mentale o anche solo «irregolari» o «scomodi». I trent’anni trascorsi a Montfavet sono resi con una recitazione contenuta, l’attività si limita alla scrittura epistolare, al ricordo dei giorni felici trascorsi con la famiglia (quella stessa che la sottrarrà all’arte e alla vita per quasi metà della sua esistenza). In conclusione, non si può sottacere come da questo testo trapeli un significato altro che ci parla di una storia di violenza di genere, e di una vittoria giunta sì postuma, ma già tutta definita e compresa nella mente di Camille, perfettamente consapevole del suo valore di artista. Ciò ha certamente contribuito alla lunga vita di questo spettacolo che è in scena da nove anni e continua a ricevere meritatissimi consensi. Nella sua doppia anima, la biografia dell’artista donna che si è vista negare non solo il riconoscimento, ma anche la possibilità di esprimere la propria creatività, si riflette la cattiva coscienza della nostra società, ottenebrata da schematismi duri a morire. D’altra parte, la sensazione è che la situazione contingente sposti l’attenzione del pubblico verso il côté della rivendicazione di genere, ponendo in ombra il grande lavoro di recupero della dimensione artistica svolto da Chiara Pasetti, ma è un rischio che va accettato, specie quando le istanze che accompagnano uno spettacolo travalicano le intenzioni dell’autore. Al termine, il pubblico ha mostrato di aver apprezzato lo spettacolo con applausi convinti e generosi. 

Mauro Canova

Ultima modifica il Venerdì, 06 Giugno 2025 08:39
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