di Seneca
Regia e Scene di Daniele Salvo
Costumi: Daniele Gelsi
Interpreti Melania Giglio (Medea), Michele Lisi (Giasone), Alfonso Veneroso (Creonte), Marcella Favilla (Nutrice)
Coro: Simone Ciampi, Cinzia Cordella, Silvia Pietta, Salvo Lupo
Produzione: Amenanos Festival/ Associazione Dide
Teatro greco romano di Catania dal 26 - 27 maggio 2025
Ha dell’incredibile il Teatro greco-romano di Catania. Per la sua posizione nel centro città, a due passi dalla bella Piazza del Duomo col suo bel liotru (elefante) in pietra lavica, simbolo della città etnea, e per tutti quegli strati asprigni che lo compongono: in parte greci (pochi), in parte romani (rossi mattoni sparsi qua e là), in parte in pietra lavica (tanti), in parte in calcestruzzo (realizzate in epoche recenti). Ma l’aspetto più inverosimile, oltre ad un piccolo Teatro limitrofo denominato Odeon, è che una buona parte della cavea, notoriamente di forma a ventaglio, è occupata da pesanti casermoni e strutture abitative varie, dove ancora oggi ci vivono intere famiglie. Mi piaceva rendere edotti quei quattro lettori che mi seguono, anche perché sono in tanti a ignorare la sua esistenza, certamente più informati sui Teatri antichi di Siracusa, Taormina, Tindari, Segesta, un po’ meno forse su quelli di Palazzolo Acreide, Eraclea Minoa, Morgantina, Lipari. Orbene, questo Teatro greco romano di Catania, grazie alla Produzione Amenanos, comincia a ri-vivere da anni nella tarda primavera (Giove Pluvio permettendo) e nei mesi estivi e non è la prima volta che registi del calibro di Daniele Salvo vi realizzino lavori del mondo classico, come avvenuto in questa stagione 2025 per Le Baccanti di Euripide e per la Medea di Seneca, vista quest’ultima qualche giorno dopo la “prima” stoppata a causa della pioggia. Spettacolo che affascina sin dalle prime battute quando sulla scena occupata da una cinquina di monoliti a specchio, s’avanza cantando versi senechiani la velata Medea di Melania Giglio, agghindata da vesti nere e lumini accesi in mano, col capo dalle lunghe chiome bionde cinto da una cresta tutta luccicori. Dire che è soltanto arrabbiata perché il suo sposo, Giasone, l’ha abbandonata per un’altra donna, è un puro eufemismo, visto che per quest’uomo, condottiero degli Argonauti, ha dato la sua vita, aiutandolo a conquistare il Vello d’Oro, uccidendo il fratello Apsirto e ingannando il padre Eeeta in Colchide. Niente possono fare quei quattro medici della peste, col viso ricoperto da maschere veneziane dal lungo becco nero (con funzione di Coro quelle di Simone Ciampi, Cinzia Cordella, Silvia Pietta, Salvo Lupo), per guarire le pene d’amore di questa donna che si dilania le carni su una piccola scena a scaloni, architettata sulla skenè di pietra lavica. Adesso, quasi masochisticamente, quella mater incazzatissima ha seguìto il suo Giasone sino a Corinto, lì dove pare che le nozze con la futura sposa, Creusa, siano imminenti: santificate dal padre di quest’ultima, il re Creonte dell’autorevole Alfonso Veneroso, dalla possente voce, che prima appare sui gradoni del Teatro e poi sedendosi su un’antica sedia Savonarola, posta su quel piccolo pianoro, decreta che quella donna barbara, pure maga, deve andare in esilio, togliersi al più presto dalla vista dei suoi occhi. Medea è distrutta, grida il proprio dolore alla nutrice di Marcella Favilla, anche lei listata a lutto, buona sola a dirle d’essere prudente e di fuggire via al più presto. Medea, come si sa, ha qualcosa di divino, imparentatata com’è col dio Sole, possiede un cervellino che va a mille all’ora e pensa ad una vendetta che resterà negli annali più cruenti della storia teatrale di tutti i tempi. Intanto chiede a Creonte di poter riabbracciare un’ultima volta i suoi due figlioletti avuti da Giasone, ricevendo in cambio da quella figura regale la concessione d’un solo un giorno, certamente sufficiente per tutto ciò che l’animo di quell’Etna incandescente vuole mettere in atto. Finalmente appare Giasone, compassato, timido, imbranato quello di Michele Lisi che non sa cosa dire e come giustificare il suo comportamento. Medea lo lava di epiteti dalla testa ai piedi, gli dice d’essere ingrato per tutto ciò che ha fatto per lui e prima di andare via con la coda tra le gambe, Giasone la prega di lasciare Corinto, preoccupato per l'ira di Creonte e del re tessalo Acasto, il cui padre Pelia è morto per un inganno perpetrato giusto da Medea. La quale adoperando le sue arti magiche, tramite la nutrice, farà pervenire a Creusa il suo regalo di nozze, consistente in una veste dorata che una volta indossata prenderà fuoco, uccidendo lei e il suo regale padre. Pare che l’acqua gettata per spegnere gli incendi divampati intorno, simile alla benzina, alimentasse ancora di più le fiamme. Non contenta della loro fine, questa Medea vestita da Melania Giglio, bravissima e come raramente è dato da vedere, diventerà una macchina da guerra, una sorta di Rambo al femminile, pronta col coltellaccio in mano a lanciare delle grida viscerali e fare fuori tutti coloro che incontra davanti a sé. In un primo momento, tra i singhiozzi del suo ex-sposo, scanna sulla piccola scena uno dei due figlioletti, poi, come uno tsunami, salita in alto su uno di quei caseggiati intorno al Teatro, sgozzerà il secondo bambino, gettandolo poi in basso non lontano dagli occhi di Giasone. Vengono i brividi. Mai avevo visto una Medea così cruenta, granguignolesca come questa messa in scena da Daniele Salvo e lungamente applaudita durante e a fine spettacolo. Occorre ancora dire che i quattro personaggi del Coro, vestiti da lemuri, intervengono a lance spiegate a difesa del re Creonte quando quella scatenata Medea chiede conto e ragione del suo status e sono ancora in scena nei momenti in cui a Corinto aleggiano spifferi cimiteriali ed essi appaiono con i volti di teschio, capitanate dalla dea Ecate, potente e inquietante, spesso associata alla magia, alla notte e al mondo dei morti, ritratta con tre facce dorate. Certamente questa, al Teatro greco di Catania, è la Medea di Seneca con l’uccisione dei figli sulla scena davanti agli spettatori e non quella di Euripide, i cui fatti di sangue si consumano dietro le quinte e vengono narrati da un semplice nunzio. E poi ancora c’è da dire che in Seneca, contrariamente a Euripide, Medea è condannata con ferocia perché si è fatta guidare dalle passioni, già evidenti nel prologo, lì dove il personaggio, sia pure quello di donna tradita e abbandonata dal suo sposo, appare come una maga dal carattere demoniaco, desiderosa soltanto di vendette tremende. Lo spettacolo replicherà il 6 luglio a Morgantina e l’11 e il 12 agosto 2025 al Segesta Teatro Festival diretto da Claudio Collovà. Gigi Giacobbe