di W.Shakespeare
Regia di Giancarlo Marinelli
Con Giorgio Albertazzi, Franco Castellano, Stefania Masala, Gaspare Di Stefano,
Francesco Maccarinelli, Ivana Lotito, Cristina Chinaglia, Mario Scerbo,
Vanina Marini, Diego Maiello, Alessandra Scirdi, Erica Poddu
Scene di Paolo Dore. Costumi di Daniele Gelsi
Consulenza storico-letteraria di Stefano Perosa. Ghione Produzioni
Roma, Teatro Quirino dal 21 ottobre al 9 novembre 2014
Come scaturite da uno stessa 'aporema' (sillogismo con deduzioni contrastanti), spiccano diametralmente opposte e di diversa, umiliata umanità (di arte e di vita) le due interpretazione che Giorgio Albertazzi e Silvio Orlando (contemporaneamente, ma in due diversi spazi scenici) prospettano ad una lettura critica, ove l'uno degli interpreti è contraddittorio ma complementare all'altro.
Il "Mercante" di Albertazzi, quel suo Shylock così 'elfo senile' 'papiro' imbiancato con tunica nera e appropriata 'scozzetta' yiddish vive la sua terrena avventura in un'allegoria di tempo che scandisce solo i tempi dell'alba e del tramonto, in un pastellata, lieve tessitura di fondali cangianti, dal blu all'arcobaleno, dal crepuscolo all' 'effetto notte' che tarda a compiersi, che non emana tenebre. Impaginandosi il tutto nell'ambito di un teatro di tradizione sfumato, sussurrato, non calligrafico che la regia di Giancalo Marinelli, quel suo pencolare tra personaggi in sobrio costume sospesi fra ponte di Rialto e intrighi di canaletti tutti da immaginare, posto a disposizione di un attore che 'contraddice' se stesso ed il suo rinomato, sardonicissimo 'imprinting' scenico. Che, per decenni (per Albertazzi) è stato quello di un 'anti-gassmanismo' del tutto ipnotico, cerebrale, molto marpione e candidamente seduttivo (la sua apparizione "L'anno scorso a Marienbad" è una icone più eccentriche, enigmatiche, sfuggenti della storia del cinema). Istrione sì, ma di un disarmato candore affabulatorio cui tutto sembrava 'concesso', mentre era lui a dosare (con astuzia e contagocce) la quantità del suo 'darsi' egolatriaco e disarmante –in parti uguali. Quindi capace di trascorrere con la massima disinvoltura dalle 'capricciose', sadiche nequizie di "Riccardo III"- o dei dannunziani edonismi di alcuni esperimenti giovanili- ai mancamenti di cuore e di pallore dell'"Idiota" dostoewskiano o dell' "Amleto" fanciullino viziato e sommessamente crudele, come i bambini che torturano una lucertola.
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Perlaceo e reliquiale, sin quasi la trasparenza, il "Mercante" di Albertazzi è ovviamente contiguo, mai rinnegante i suoi trascorsi d'attore (e seduttore), e nemmeno identificabile come 'tenebra del male', usuraio senza scrupoli e venale novantenne assetato di vendetta contro chi, in passato, osò offenderlo ed esporlo alò pubblico ludibrio. Di Bassanio e di Antonio (gli antagonisti, gli scommettitori, i creditori da trascinare in estremo giudizio), a Shylock non resta che 'asportare' (in modo del tutto simbolico, cerebrale) quella baldanza, destrezza, tracotanza giovanili in cui vede specchiarsi l'irripetibile passato. Così come non sfugge quel brivido di finitezza e umano svilimento che entrambi gli amici 'questuanti il prestito' con pegno di 'carnivoro', legati da un affiatamento, da una dedizione reciproca che sarebbe meschino catalogare omofila o meno, ravvedono in se stessi 'proiettandosi' come per vertigine nell'ingloriosa, martoriata vecchiaia dell'ebreo stanziale a Venezia, quindi 'non più errante' ed 'espiante' secondo le convenzioni dell'epoca.
Di suo, in ogni caso, l'opera resta (non perdendo ambiguità e mordente) una delle più controverse del repertorio shakespeariano: in origine considerata quasi un'invettiva antisemita per una contrapposizione anacronistica fra ebreo malvagio e cristiano generoso. Ma, ad una più approfondita lettura, vi si incastona-oggi- una delle più profonde 'epifanie'\presentimenti del 'diverso' non per razza ma perché latore di 'qualsiasi' disagio (sociale o individuale), di una reattività pedante, freudiana, 'ad excludendum'- non concepibili nel 1597 (anno di stesura dell'opera), ma genialmente intuite dalla fervida intelligenza del Bardo. Nel suo avvicendarsi di relativismi, ambivalenze, sottintesi e sottotesti, "attraversati dalla tensione tra odio e amore, giustizia e disgrazia, affetto e disprezzo, commedia e tragedia". Di cui lo spettacolo è calibrato, sobrio epicentro di 'vita e di morte' soppesate in denaro. Come accade oggi.
Angelo Pizzuto