di: Bernard-Marie Koltès
regia: Annalisa Bianco e Virginio Liberti
con Fulvio Cauteruccio e Michele Di Mauro
scene Horacio De Figueiredo
costumi Marco Caboni
luci Loris Giancola
Roma, Teatro India, 19 e 20 giugno 2007
Come in «Un anno con 13 lune», vista a Torino pochi giorni fa, le note di regia a «Nella solitudine dei campi di cotone», in scena all' India, inchiodano Annalisa Bianco e Virginio Liberti ad una considerevole responsabilità. Finché dicono che si trattava di liberare il testo di Bernard-Marie Koltès, «un gigantesco poeta-autore», dalle precedenti messe in scena, «liberarlo dalla presenza del suo cliché più fastidisioso, quello che lo riduce ad una riflessione sul Desiderio», tutto bene. Direi che siamo addirittura nell' ovvio. Quale regista non vuole essere originale? In quanto al Desiderio (la maiuscola non è mia), esso è l' evidenza. Dunque, niente Desiderio. Sotto il Desiderio, ci sarà qualcos' altro. Bianco-Liberti individuano questo qualcosa in citazioni di Galileo e Einstein, per altro non criptiche. Ovvero, in quanto al senso (relatività della posizione di oggetto e soggetto nello scacchiere cosmico), esse sono esplicite. Noi comuni mortali in genere ignoriamo che siano parole di quei due sommi. Ma la faccenda non cambia. Ciò che cambia è quanto Bianco-Liberti si propongono, vale a dire d' interpretare il testo sulla base di quegli assiomi, scientifici, inoppugnabili: il rapporto tra i due protagonisti, il venditore e il compratore, descrive la vita «come Complessità e Molteplicità». La domanda allora diventa: questa argomentazione come si traduce nello spettacolo? Il paragone con «Un anno» è inevitabile. Le dichiarazioni d' intenti mimeticamente, benché a rovescio, si riflettono in una scenografia, come nell' altro spettacolo, tanto povera (da rigatteria) quanto sfarzosa, sovrabbondante: sedie, tavoli, quadri da due soldi, una panchina, una rete/grata; e come in «Un anno con 13 lune» il discorso si sviluppava secondo una linea tutta discorsivo-orizzontale, qui l' orizzontabilità si ripete in questo spazio scenico, di fronte al quale agiscono i due protagonisti, al secolo Michele di Mauro e Fulvio Cauteruccio. Dapprima, la materialità di questa linea è piuttosto oppressiva e la negazione di ogni Complessità o Molteplicità. Ma poco a poco, in specie Michele Di Mauro, che si rivela un davvero grande attore, e il nevrastenico, l' ossesso Cauteruccio, offrono se stessi in olocausto e se le questioni poste da Galileo e Einstein, o da Bianco-Liberti, si confondono, la materia umana sottostante emerge, viene alla luce. Ma di nuovo, a mio parere, viene meno nel colpo di scena che precede il finale, quando questi due uomini comuni (benché siano due filosofi) decidono di manifestarsi in tutta la loro volgarità e traggono da certe scatole le loro pacchiane merci: la questione cruciale, ci dicono Bianco-Liberti, è in codesta esposizione. Non a caso, il colpo di teatro strappa l' applauso a scena aperta. Ma esso, nella sua improvvisa e lacerante comicità, è riduttivo. Il contrario esatto che molteplice e complesso.
Franco Cordelli