di Nikolaj Gogol’
regia Mindaugas Karbauskis
con Alexander Semchev, Polina Medvedeva
1-2 ottobre 2009, Teatro Valle, Roma
C’è una casetta bassina bassina nella campagne remote della Piccolarussia. Pittoresca, un po’ malandata, circondata dal verde e dai colori di filari di alberelli da frutto. Nicolaj Gogol’ la descrive minuziosamente nell’incipit della novella Proprietari di vecchio stampo contenuta nella raccolta Mirgorod, pubblicata nel 1835. Una scrittura stupenda, che indugia nei dettagli più intimi di ogni oggetto, elemento, curiosità, ci trascina nel mondo fiabesco dei due «vecchierelli», Afanasij Ivanovic e Pul’cherija Ivanovna, sessant’anni lui, cinquantacinque lei, dentro le loro giornate scandite dal tempo del mangiare, dell’accogliere ospiti, del parlarsi, del dire stupidaggini, del dormire. Trasportati in una idilliaca vita agreste, lontana dalla civiltà, dal caos e dai rumori cittadini, e dalla contaminazione del progresso, ci gustiamo la descrizione dello stile di vita dei due possidenti, del loro quotidiano, delle atmosfere ovattate di quell’angolo sperduto di mondo dove il tempo si è fermato. Un ritratto di struggente tenerezza che rivive nella trasposizione teatrale della novella, firmata Mindaugas Karbauskis, in scena con immutato successo al Teatro d’Arte Chechov di Mosca dal 2001, e rappresentata al Teatro Valle di Roma in occasione dei festeggiamenti per il secondo centenario della nascita di Gogol’, Uno spettacolo che è quasi un gioiello: suggestivo, poetico, delicato, ironico. Un’ode al teatro, immaginazione allo stato puro e fascinazione visiva. La quieta e serena esistenza di questi Possidenti di antico stampo, interpretati da Alessandro Semcev e Polina Medvedeva, si dipana sul palcoscenico con la complicità di uno stile fortemente evocativo che descrive sentimenti, azioni, significati, attraverso immagini, metafore e suoni. La dolorosa malinconia che pervade l’autore dei più celebri Il cappotto e Il naso, è tutta nei movimenti lenti, negli sguardi persi, nelle rare battute dei protagonisti del racconto, nella lentezza della loro esistenza, in contrapposizione al frastuono e gli schiamazzi della servitù che alle loro spalle corre, ruba, mente, si barcamena; è nella rallentata partecipazione a giornate tutte uguali, ma serene, animate solo dalla visita di un ospite o dal continuo mangiare pietanze fantasiose e gustosissime di cui è artefice la padrona di casa. Il regista Karbauskis utilizza elementi precisi della novella, come bauli, cassette, piccoli mobili per ricreare, in una scena nuda, vuota all’estremo, il mondo interiore della coppia. Li mette vicini, bauli su casse, mobili uno sull’altro, poi di nuovo dispiegati in fila, e ancora sovrapposti come un castello di carte, per suggerire credenze piene di cibo, tavoli per cene luculliane, stipi pieni d’ogni leccornia: marmellate e salse, vodka di millefoglie e di salvia, funghetti alle foglie di ribes e alla noce moscata. Ma siamo nel regno della fantasia, quindi tutto è un gioco e un pretesto, gli arredi non servono, non conta la verosimiglianza, si può intendere tutto, senza che ci venga messo in bella mostra quel dettaglio minuzioso e realistico che preme a Gogol’ nella scrittura. E se nel racconto la porta della stanza da letto «cantava con voce di soprano sottile, sottile», la porta della stanza da pranzo «gorgogliava in voce di basso» e quella dell’anticamera «emetteva un suono stranissimo, tremulo, e insieme doglioso», sul palcoscenico bastano i suoni a ricrearne la musica e l’ironia. Così per la minuziosa descrizione del quotidiano: è la ripetizione di gesti, di frasi, di movimenti a rendere la semplicità e la tranquillità delle giornate dei due coniugi. Ogni mattina il passaggio delle oche, che il regista affida alle serve della casa, in un’esilarante pantomima che, sola, vale lo spettacolo. Ogni giorno le faccende culinarie, ogni giorno l’andirivieni di servitù. Fino all’evento che stravolge il quieto vivere: la scomparsa di una gattina molto cara a Pul’cherija Ivanovna, la sua ricomparsa fugace e la malattia della donna, convinta che la Morte è venuta a prenderla. D’altronde, rivela Gogol’, «per strana natura delle cose sono state sempre cause banali a generare grandi avvenimenti, ed al contrario le grandi imprese hanno portato a banali conseguenze». A niente, però, servirà la preoccupazione della moglie, prima di morire, affinché il marito possa essere accudito e servito degnamente dalla servitù. Incapace di condurre da solo un’esistenza decorosa, l’uomo sfiorirà a poco a poco, giorno dopo giorno, ridotto a un fagotto ingombrante e senza alcuna dignità, maltrattato e vilipeso. La tranquilla vita di sempre, per quanto così semplice ed elementare, gli risulterà insostenibile senza la presenza della compagna di un’intera vita. Karbauskis insiste sull’indecoroso atteggiamento delle serve nei confronti del vedovo: spolverato come un soprammobile, usato come sostegno per giocare a corda, spostato nella casa come un baule vecchio. La sua morte e il decadimento della casa chiudono il racconto. Non era facile renderla scenicamente tanto bella questa storia, renderla tanto viva nella sua semplicità, non era facile farla amare e farne anche sorridere lo spettatore. Un miracolo riuscito. Purtroppo di fronte alla platea di un teatro Valle stranamente non pieno.
Flavia Bruni