di Antonin Artaud
traduzione: Paolo Bignamini
regia: Annig Raimondi
interpreti: Riccardo Magherini, Annig Raimondi, Yumi Seto
Milano, Teatro Arsenale 2007
“…non è allegro abitare nel mondo: Iddio l’ha affidato al diavolo… Sottintende figure ambivalenti l’idea agostiniana che il potere abbia natura satanica: ‘Dio’ e ‘diavolo’, nomi complementari; il secondo esibisce quel che l’altro nasconde”. Così Franco Cordero in Fiabe d’entropia sintetizza il volto oscuro del cristianesimo, sfigurato dall’angosciosa ossessione del male e della colpa. È l’atmosfera che ritroviamo in Per farla finita col giudizio di Dio di Antonin Artaud. Qui l’ateismo è proclamato con una tale violenza verbale da trasformarsi in rito demoniaco per esorcizzare l’orrore del potere repressivo e il disgusto del corpo dolorante e putrido, tema quest’ultimo impregnato di valenze autobiografiche.
Nato come testo radiofonico pochi mesi prima della morte dell’autore, censurato e riscoperto molti anni dopo, Per farla finita col giudizio di Dio non ha perso la sua valenza visionaria e l’impatto violento dei suoi eccessi verbali anche se al giorno d’oggi è molto più difficile suscitare scandalo. È un’opera di difficile esecuzione, a volte faticosa, fatta di frammenti che mescolano prese di posizione provocatorie sulla falsità d’ogni razionalizzazione del mondo e martellanti evocazioni dell’unica verità possibile, il dominio della pura corporeità e quindi della violenza e della malattia.
La regia di Annig Raimondi muove tre personaggi in un ristretto spazio oscuro e claustrofobico, alternando esplosioni di violenza verbale e gestuale con momenti solenni, quasi rituali, di puro strazio esistenziale. Anche se a tratti lo spettacolo è un po’ difficile da seguire, l’impatto è forte e nei momenti migliori di grande capacità evocativa. Brevi richiami alla vicenda di Beatrice Cenci, storia d’incesto e di parricidio, accentuano la dimensione simbolica, mitica in cui si muove Artaud, mito degradato, reso grottesco ma pur sempre operante a livelli profondi dell’inconscio. Sullo sfondo, proiettate su uno schermo, si susseguono immagini di anonimi momenti di vita che sottolineano centralità e squallore del corpo ridotto a infimi dettagli resi quasi ripugnanti. Gli interpreti s’impegnano efficacemente in ruoli molto impegnativi pur con qualche forzatura di tono accompagnata a volte da eccessi sonori dello sfondo musicale. Di particolare suggestione il monologo finale di Annig Raimondi che scandisce ieraticamente un lento sprofondare nelle tenebre del dolore e della morte.
Vittorio Tivoli