drammaturgia Stefano Geraci, Roberto Bacci
regia, scene e costumi Roberto Bacci
con Giovanna Daddi, Dario Marconcini, Elisa Cuppini,
Silvia Pasello, Francesco Puleo, Tazio Torrini
interventi sonori a cura di Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti
aiuto regia Silvia Tufano
assistente costumi Chiara Fontanella
allestimento Sergio Zagaglia, Stefano Franzoni, Fabio Giommarelli
scenografa pittrice Chiara Occhini
Produzione Fondazione Teatro della Toscana.
Al Teatro Era di Pontedera, dal 18 al 22 aprile 2018
Una vita per il teatro. Forse è la frase più scontata, ma di sicuro più appropriata per parlare di Dario Marconcini e Giovanna Daddi, coppia legata da 60 anni nella vita e nell'arte, che ora si racconta forse per il bisogno di fare un bilancio delle loro esistenze inseparabili; forse per restituire in altro modo quel bagaglio di arte cresciuto e accumulato negli anni in quel luogo appartato della provincia Toscana che è stato e continua ad essere il Teatro di Buti; o forse solo per esorcizzare quella parola sempre difficile da pronunciare, morte o dipartita, che presto o tardi arriverà per tutti, affinché possa trovarli preparati al trapasso per "chissà dove". E Scene da chissàdove è il sottotitolo di Quasi una vita, che il regista Roberto Bacci insieme al drammaturgo Stefano Geraci, loro amici e colleghi, ha costruito sulla matura coppia, sulla loro storia, entrando nell'intimità di ricordi e riflessioni ad alta voce, raccogliendo confessioni a cuore aperto, e collocandoli, indifesi, sulla scena a risvegliare il loro vissuto, a rievocare sussulti e respiri, voci e pensieri nascosti, dubbi e certezze, gesti e sguardi catturati nella memoria e sul nascere del momento teatrale. E così dare corpo ancora una volta al loro essere attori, protagonisti umili e appassionati di quel teatro che li ha espressi, modellati e forgiati e del quale si sono nutriti. Quel teatro frutto di un sodalizio storico e artistico iniziato proprio con Bacci che risale ai fertili e innovativi anni Settanta, ispirato al Living Theater di Judith Malina e Julian Beck, all'Odin e a Grotowskj: una militanza artistica cresciuta a Buti che ha sortito poi la nascita del Centro di Ricerca Teatrale di Pontedera. Nel racconto biografico intercorso per intraprendere questo viaggio teatrale intessuto di ricordi di giovinezza e ora di vecchiaia, sono nati interrogativi da condividere col pubblico: "Cosa resta delle nostre vite quando ci volgiamo indietro e ci chiediamo: cosa abbiamo combinato? E il teatro ci concede un tempo per intravedere un disegno nei passi che abbiamo compiuto e che casomai abbiamo calpestato maldestramente senza neanche accorgercene?". Accompagnati da quattro figure in bianco – angeli, dèmoni, voci della coscienza, spiriti dell'aldilà – che a turno o insieme a tratti li sostengono, puntellano, provocano, assistono, dando voce ai loro pensieri e dialogando con essi, i due condividono una panca. Qui, nel mezzo della scena illuminata circolarmente come una pista da circo e somigliante a un limbo, a luogo di passaggio o ad una sala d'attesa, essi siedono come due innamorati che, guardando lontano, aprono il flusso dei ricordi: del loro primo incontro, della dolcezza del primo bacio, dei sogni della giovinezza e dei progetti, mentre le mani si accarezzano timidamente e la testa di lei si reclina sulla spalla di lui. Irrompe improvviso il "teatro nel teatro", la finzione, la recita, la consapevolezza di essere ancora una volta sul palcoscenico, truccati, a vestire i panni di altri, di un Faust o di un Amleto, e scoprire che certe parole appartengono al loro stesso vissuto, che immedesimarsi significa vivere le stesse voci dei personaggi in uno scambio di arte e vita, in una dimensione di sonno e veglia. Come è il teatro. Tutto converge nella visione di una porta, unico elemento scenico. Ha due battenti retti da una sola anta. Quando si chiude si apre. Bocca che inghiotte o ingresso in un chissà dove. «La porta, una volta, bastava a decretare un destino», vien detto. «Ecco una buona opportunità per rimediare a quell'attimo sbadato in cui, chiusa la porta alle nostre spalle, ci voltiamo a vedere cosa abbiamo combinato, ed è troppo tardi. Questa porta ci concede un tempo supplementare, perché, come dice il poeta: "il teatro ci dà un altro tempo, ha altre vite da vivere"». Luogo di apparizioni, quella porta assurge a simbolo di quel «... paese inesplorato da cui nessuno è mai tornato, che fa preferire i mali che conosciamo al volo verso altri che sono ignoti». E la paura dell'ignoto cede posto, infine, al silenzio e alla notte, rischiarata da una grande luna e da grandi stelle che si accendono dietro i teli della parete teatrale. Se la messinscena risente di un debole amalgama tra i due interpreti principali e le quattro figure che li accompagnano; e mentre di Giovanna viene troppo poco evidenziata, rispetto a Dario, la dimensione teatrale, rimane la toccante testimonianza di due esseri umani, e del loro amore. Per la vita e per il teatro. Amore ancora da vivere e da (ri)scoprire. E non ancora un congedo.
Giuseppe Distefano