drammaturgia Antonello Antinolfi e Giulia Pes
regia Francesco Leschiera
con Ettore Distasio, Giulia Pes e Ermanno Rovella
luci Luca Lombardi
scene e costumi Eleonora Rossi
elaborazioni sonore Antonello Antinolfi
scenografie digitali Dora Visual Art
produzione Teatro del Simposio
Prima nazionale al Teatro Libero di Milano, dal 27 febbraio al 5 marzo 2017
La vera storia di sofferenza e speranza di un sopravvissuto ai lager nazisti
Entrando in sala, mentre un intenso odore di cuoio e tabacco sollecita il nostro olfatto e ci accompagnerà per tutto lo spettacolo, siamo subito coinvolti nel clima di una storia che ancora ci riguarda. Sulla parete frontale è proiettata una enorme stella gialla, e un video trasmette un documentario sulla storia di Hitler e l'ascesa del nazismo. Poi, rumori di gente, un brusio crescente prima di un incontro di pugilato in cui si riesce a distinguere il nome Rocky – di Rocky Marciano – che si mescolerà col vocio della folla al discorso di Hitler. Stacco. Tre personaggi in scena. Siamo dentro uno spazio simbolico, astratto e realistico: una stanza per metà a forma di stella di Davide, con un angolo incuneato al centro, che ad un certo punto verrà delimitata sul davanti allungando un filo spinato. Unici oggetti una valigia al centro; una divisa nazista appesa da un lato e dei guantoni da boxer sulla parete opposta; due poltrone che fungeranno da luogo geografico di lontananza da dove parlare, scrivere e ricordare; e un'altra poltrona con un microfono accanto. Qui, come a immaginare una deposizione processuale davanti ad un tribunale, siederà il protagonista rivolto al pubblico nel racconto della sua vicenda, delle sue origini, del suo dramma umano inserito in un più grande dramma: quello della barbarie nazista. Dentro questo spazio claustrofobico, chiuso, schiacciato, si dipana tra flashback e presente la storia vera di un sopravvissuto ai campi di sterminio: l'ebreo polacco Hertzko Haft, soprannominato "la bestia" per via della sua forza fisica sfruttata da un generale delle SS nei combattimenti di pugilato organizzati per il sadico divertimento dei nazisti all'interno dei campi di sterminio, pratica all'epoca molto comune inscenata per pura crudeltà. Erano duelli all'ultimo sangue contro gli altri deportati, che lo resero famoso e temuto, nonché disprezzato dagli altri prigionieri, ma che gli permisero di sopravvivere fino alla fuga all'annuncio della sconfitta del nazismo e della liberazione da parte degli americani. Trasferitosi negli Stati Uniti Haft cambiò nome e affrontò una nuova vita come pugile professionista, diventando uno dei più forti pesi massimi della sua epoca, fino al fatidico ko con il celebre Rocky Marciano che pose fine alla sua carriera. All'età di 78 anni, quasi sessant'anni dopo le sue vicissitudini nei lager, trovò il coraggio di raccontare quell'esperienza tragica al figlio Alan: prima raccolta in una biografia, poi trasposta a fumetti in una graphic novel firmata da Reinhard Kleist. Ora, a farne un lodevole e coraggioso allestimento teatrale è il regista Francesco Leschiera (per il Teatro del Simposio) grazie alla rielaborazione drammaturgica di Antonello Antinolfi e Giulia Pes. Nello spettacolo (che ben si presterebbe anche ad una sceneggiatura cinematografica), ben ritmato e determinato da luci suggestive e proiezioni digitali, con musiche che aggiungono diverse atmosfere agli snodi narrativi, il racconto si dipana su più livelli temporali, con un narratore che spesso sfumerà, senza soluzione di continuità, nei panni di altri personaggi della vicenda intrecciando ricordi e ruoli, con dialoghi in forma di monologo, continui slittamenti a due, incursioni in platea. Centrale nella vicenda di Haft, oltre al rapporto col fratello, è l'amore per Leah, legame inevitabilmente interrotto ma che lo farà resistere alle atrocità dandogli la forza di sopravvivere. Ed è toccante la sequenza delle lettere dal campo di concentramento che Hertzka fa pervenire a Leah, resa in un dialogo tra i due mentre, scrivendo nell'aria, scorrono parole proiettate; o il momento dell'apparizione della donna in un sogno, ormai persa dopo la deportazione. La ritroverà dopo molti anni avendo appreso casualmente che, tra i pochi sopravvissuti di Beltchatow, si era salvata e anche lei fuggita in America dove si era sposata e rifatta una nuova vita. Il loro intenso, muto incontro è descritto nel toccante racconto del figlio che per la prima volta vedeva scorrere le lacrime sul volto duro del padre. Solo allora, dopo anni di silenzio, egli apprenderà la vicenda di quel genitore dal dolore compresso, fino ad allora considerato solamente un uomo violento e volgare. "Ha aspettato 60 anni prima di dirmi tutto – conclude il suo racconto –. Credo che il dolore che aveva dentro lo terrorizzava o semplicemente aveva il desiderio di uscire da quegli incubi. Il racconto di quella brutalità, della sofferenza che aveva vissuto, era quanto di più difficile da sopportare per un figlio e in tutti questi anni mi sono chiesto come avrei vissuto io se avessi avuto le sue esperienze, che tipo di persona sarei ora. Ma alla fine credo di aver capito chi era mio padre, e perché era diventato quello che era. E per questo lo perdono". Bravi e partecipi i tre attori nel restituirci una storia che commuove e che non ci si può stancare di ascoltare.
Giuseppe Distefano
Hertzko Haft e il suo riscatto
Una bandiera con la svastica, un filo spinato e la ghiaia disseminata su tutto il palco ci fanno entrare, scenograficamente, nell'orrore dei campi di concentramento. Sui lati, un microfono e una valigia e, al centro, uno schermo audio video con vicino una sedia completano gli oggetti di scena. Lo spettacolo inizia e ce ne accorgiamo quando vediamo scendere dalle scale gli attori che sfiorano il pubblico.
La storia narrata è vera ed è quella di Hertzko Haft, ebreo polacco deportato nei campi di sterminio nazisti. Hertzko viene costretto dai gerarchi a diventare un pugile in cambio della propria sopravvivenza. Lontano dall'amore di Leah, sempre presente nella sua mente, combatterà con gli altri deportati in lotte all'ultimo sangue fino alla liberazione da parte degli americani alla fine degli anni '40. Fuori dal lager, sarà il pugile professionista che ha combattuto con Ricky Marciano, diventando uno dei pesi massimi più importanti di quel periodo storico.
Il "Ring dell'inferno" richiama, già nel titolo, i contenuti che vuole proporre. Da un lato, c'è l'inferno della storia personale del protagonista racchiusa all'interno di un campo di concentramento che è la storia universale di un intero popolo colpito dalle leggi razziali, dall'altro, c'è il ring che, inizialmente subito come strumento di divertimento degli oppressori, diventa, poi, il mezzo per riscattare la propria vita fino a toccare l'apice del successo. Sotto questo aspetto prevale un teatro di narrazione che non vuole dimenticare e che, giustamente, non vuole farci dimenticare quei terribili fatti. Ma c'è di più. Il rapporto fra Hertzko e Leah è una classica storia di amore fra un ragazzo e una ragazza che si incrocia con il destino sfortunato del protagonista. I due piani drammaturgici, quello storico e quello sentimentale, si mischiano dando vita a una storia che racconta tanto, ed è interessante quello che vuole trasmetterci, ma lo fa in modo troppo compresso assomigliando a un bigino. D'altronde non ci si poteva aspettare di più dalla durata della messinscena che supera di poco un'ora. L'importanza della storia soffre quindi un po' dei confini temporali della messinscena. Non solo. Il suo peso "schiaccia" la recitazione degli attori che diventano più portatori che interpreti di un messaggio. Ma questa può essere una scelta del regista Francesco Leschiera. La sua regia può piacere o non piacere ma propone un preciso marchio estetico (e questo è un punto a suo favore) riconoscibile e quindi maturo: la cura della scenografia, l'interazione fra gli attori e il pubblico, l'orientamento verso un teatro semplice, lineare, che mescola classico e ricerca ne sono i segni. Il finale è un lungo applauso del pubblico che riempie la piccola sala del Teatro Libero.
Andrea Pietrantoni