di Tolstoj
regia: Marco Sciaccaluga
con Vittorio Franceschi
Genova, Teatro Duse, fino al 4 febbraio 2007
Milano, Teatro Strehler, fino al 2 marzo 2008
Roma, Teatro Vittoria, dal 26 marzo al aprile 2008
Ha debuttato la stagione scorsa questo spettacolo del Teatro di Genova messo in scena da Marco Sciaccaluga, ma compie ora la sua tournée. Svet la luce splende sulle tenebre (al Vittoria fino a domenica 6 aprile) è uno dei testi teatrali di Lev Tolstoj, incompiuto ma ugualmente assai pregnante rispetto alle scelte che una coscienza matura può compiere davanti alla storia, alla propria fede e alla propria coscienza. Vederlo ora, in piena campagna elettorale e davanti alle violente invasioni di campo delle gerarchie vaticane, finisce con lo squilibrare la visione, nel senso che è difficile prescindere dalle mille sciocchezze, i precetti e gli anatemi che volano come bollicine in questi mesi, anche se sul palcoscenico siamo di fronte a un personaggio affascinante e solido, candido quanto risoluto a portare fino in fondo la propria scelta di fede e di campo.
L'agiato possidente Nicolaj Ivanovic (cui Vittorio Franceschi dà tutto lo spessore non solo d'attore, ma anche del suo essere drammaturgo e quindi narratore) non se la sente più di possedere le proprie ricchezze, i propri boschi incommensurabili, lasciando che contadini e servitori gliene versino i proventi. A costo di sfiorare il ridicolo delle situazioni (almeno davanti agli occhi di parenti ed amici che affollano la sua tenuta) quando dà del «lei» o porge la mano agli imbarazzati camerieri di casa.
In quella Russia prerivoluzionaria, sul punto di esplodere contro ogni antica servitù e ogni assolutismo zarista, Tolstoj proietta nel protagonista della commedia se stesso, i suoi sofferti travagli umani e religiosi. Forse anche l'illusione che rendere meno inumani quei rapporti di sfruttamento medievale, possa evitare la rivoluzione e quindi la temuta catastrofe. Morì infelice il grande scrittore di Guerra e pace e di Anna Karenina, avviluppato nelle sue crisi che avevano ormai invaso la storica sua Jasnaja Poljana. Frequentato anche lui da monaci dubbiosi e prelati rapaci, proprio come avviene a Nikolaj Ivanovic, che si accalora e paga tutti i prezzi per portare avanti la sua evangelica rinuncia. Anche se oggi il dibattito religioso suona proprio diverso, e il confronto tra i due religiosi attorno a lui (il sofferto e simpatico Gianluca Gobbi, e il «rude» Massimo Cagnina) è vanificato dalla sola visione dei defilé d'epoca e dai sacramenti mediatici di papa Ratzinger.
In questo vasto affresco di campagna russa (una realistica e assai vitale periferia della coscienza e della ragione) si muove una vera folla di personaggi e di interpreti. Jean Marc Stehlé ne ha fatto una rigogliosa, quasi ridondante e affastellata, porzione forestale, in cui ogni tanto si individuano salotti, stanze, e perfino la cella di contenzione dove Nikolaj si ritira a espiare e meditare. Mentre i suoi parenti e proseliti che hanno condiviso la sua scelta, cadono in una disgrazia generalizzata. In particolare il possibile genero, Flavio Parenti, che diviene obiettore rispetto all'esercito, pagandone prezzi altissimi.
Per altri versi il meccanismo di quella convivenza appare forzato come un carillon impazzito. E scelte e conquiste dell'anima si tengono in bilico stretto tra profezia, testimonianza e ridicolo. Se quello della fede evangelica e antigerarchica è un dramma che può finire in tragedia, almeno interiore come lo fu per Tolstoi, quella della finzione teatrale viene chiusa da un brusco colpo di pistola, che la fa finita con i buoni sentimenti. Non c'è, nei personaggi di Tolstoj, la consapevolezza malinconica di quelli di Cechov. La fede quasi richiede la catastrofe e l'espiazione. E la folla dei personaggi che pure si sono dannatamente movimentati (con molti meriti degli attori) fra quelle sterpaglie, sembrano destinati ad afflosciarsi su di sé. A quell'amarezza, solo la fede sembra poter dare un futuro, oltre il sipario.
Gianfranco Capitta
In una Russia fine Ottocento dove regnava povertà per molti e lusso per pochissimi, Nikolaj Ivanovic, ricco proprietario terriero, non riesce più a sopportare l' ingiustizia di questa realtà, si converte al cristianesimo e vive secondo i Vangeli con rigore, rifiutando la Chiesa che avvallava e non si opponeva a questa iniquità. Quando Tolstoj scrisse «Svet. La luce splende nelle tenebre», senza terminarlo e pubblicato postumo nel 1912, viveva le stesse angosce del protagonista della sua opera e anche per lui moglie, figli e parenti erano preoccupati dall' intransigente rigore etico delle sue scelte di rinuncia ai beni che mettevano a rischio l' avvenire della famiglia. In una scena che è un esterno-interno di boschi e salotti, Marco Sciaccaluga fa vivere con nitida semplicità questo intenso dramma nella bella versione di Danilo Macrì. Vittorio Franceschi, bravissimo, disegna un Nikolaj tormentato e lucido, sprofondato in una crisi senza soluzione, rivoluzionario nel seguire i Vangeli e integralista nell' imporlo a tutta la famiglia. Brava Orietta Notari, moglie intelligente e coraggiosa, Pier Luigi Pasino, Fiammetta Bellone, Gianluca Gobbi. Uno spettacolo che scava nel profondo della ragione e dell' anima per cercare una risposta alla domanda se sia possibile accettare che il nostro benessere si fondi sulla altrui sofferenza.
Magda Poli
Quasi contemporaneamente alla scrittura di Resurrezione, grande romanzo di redenzione attraverso l'espiazione di una colpa non commessa, Tolstoj comincia la redazione di Svet-La luce splende nelle tenebre. Dove, in accenti ispirati a un'introspezione che confina con la messa in accusa, il padre della letteratura moderna espone i principi di quella religione dell'anima cui consacrerà il resto della sua esistenza. Ma non vuole o non può portare a termine questo bellissimo canto fermo sulla morale evangelica che tenta, con ogni mezzo, di realizzare nella prassi.
Dopo aver descritto il lucido delirio di un protagonista scisso tra l'implacabile volontà di spogliarsi dei suoi beni per vivere in armonia col dettato apostolico e il desiderio di non contrastare l'integrità dei suoi cari, Tolstoj non prosegue l'inchiesta lasciando negli appunti l'exitus di un'autocritica destinata a rimanere aperta. Per sei anni, dal 1896 al 1902, il suo alter ego agonizza tra i fogli prima che i precetti della fratellanza universale predicata dal suo autore spingano l'uomo Tolstoj a fuggire di casa incontrando la morte in una piccola stazione suburbana. Rimasto fino ad oggi inedito per il teatro, salvo una precaria messinscena berlinese, oggi questo testo fondamentale del pensiero di Tolstoj viene proposto al pubblico per merito del Teatro di Genova e del suo condirettore Marco Sciaccaluga, regista dello spettacolo che vede schierati attorno al protagonista uno stuolo di validissimi giovani provenienti dalla scuola di recitazione dell'ente produttore. Nella cornice, sapientemente ideata da Jean-Marc Stehlé, che sullo sfondo di un bosco di betulle che ricorda da vicino le immagini della tenuta di Tolstoj a Jasnaja Poljana riunisce con poche varianti le stazioni da teatro espressionista di questa calata progressiva nell'inferno di un vivo che invano anela all'assoluta purezza degli umili, il dramma si snoda nei modi e nei tempi a suo tempo teorizzati da Brecht.
Con siparietti che fanno da intervallo tra i vari quadri introducendo per comodità didascalica i diversi luoghi deputati della parabola. Con precisi riferimenti allo splendore figurativo del cinema di Paradjanov come alle luci e alle ombre della grande ritrattistica russa ottocentesca. Una bella regia confortata dall'equilibrio di un ensemble dove spiccano la grazia di Orietta Notari e il generoso impeto di Flavio Parenti mentre Vittorio Franceschi si limita a conferire un empito stavolta esente da quel mistico afflato richiesto da un ruolo così grande.
Enrico Groppali