di Martin Crimp. Regia: Roberto Andò. Scene e luci: Gianni Carluccio. Costumi: Agata Cannizzaro. Interpreti: Laura Morante, Gigio Alberti, Stefania Ugomari Di Blas.
Produzione Teatro Stabile dell'Umbria, Fondazione Brunello Cucinelli in collaborazione con Nuovo Teatro.
Torino, Fondazione TPE, Teatro Astra 25 ottobre 2012
Genova, Teatro della Tosse, 22 novembre 2013
In scena al Teatro della Tosse fino a domenica 24 novembre 2013
Lo fa con due attori anch'essi rubati al cinema e volti noti al pubblico italiano: Laura Morante e Gigio Alberti. Nonostante la notorietà del cast la sala "Aldo Trionfo" del Teatro della Tosse è semivuota.
Due parole sulla storia. Una coppia con due bambini si trasferisce in una casa di campagna. Una notte lui, che fa il medico, torna a casa con una ragazza in fin di vita. La moglie gli chiede spiegazioni, ma lui rimane vago. Al risveglio della giovane un lungo dialogo tra lei e la moglie porta alla luce la verità: la ragazza è da tempo l'amante del marito con cui condivide la dipendenza dall'eroina. La moglie se ne va di casa coi bambini ma, nel quadro successivo, la situazione è tornata alla normalità: è passato del tempo e il rapporto tra i coniugi si è ricucito, ma solo in apparenza. L'infelicità e la delusione regnano pesanti sulla loro convivenza. I regali e il comportamento servizievole di lui non bastano alla moglie per dimenticare il passato. Il rapporto è tenuto in piedi solo per adesione alle convenzione sociali, per salvaguardare la reputazione del medico di paese. Forse anche per proteggere il ricordo del loro amore quando era puro.
C'è pochissima azione nel testo di Crimp, che favorisce il racconto indiretto. Lo scambio di battute si inceppa ad ogni domanda: i personaggi non si ascoltano, si ripetono, abbandonano le parole nel vuoto. Questa drammaturgia sospesa rispecchia il pantano in cui si trovano i personaggi, la non- azione che li caratterizza. L'interpretazione di Morante e Alberti è fredda, distaccata. Ogni evento è riportato, raccontato, non vissuto. L'andamento cantilenante della voce di Morante assopisce la platea in un silenzio che sembra annoiato, piuttosto che attento. Confusa la prova di Alberti e di Ugomari Di Blas che paiono a disagio sulla scena, passando in modo discontinuo dalla formalità alla ricerca di una qualche verità di rapporto.
Bella e d'impatto l'enorme vetrata che chiude il fondo della scena, riflettendo la luce del giorno e il buio della notte. Essa da sola, più che il mobilio, racconta la maestosità della casa ricavata da un vecchio granaio. L'ambientazione della campagna, già citata più volte nei dialoghi, si materializza nella zona di proscenio, in cui una striscia di finto prato accoglie una piccola fattoria in miniatura con tanto di animali da cortile. Questa parte di scenografia, altrimenti superflua, trova la sua ragion d'essere nelle mani della ragazza quando decide di raccontare al pubblico la sua storia sottoforma di favola.
La messinscena di Andò non si avvale di alcuna ricerca sonora, ad eccezione delle ormai svalutate punte di diamante del repertorio latino Besame mucho e Volver.
Tutti e tre gli attori sono microfonati. Questa scelta "tecnica", che sempre più spesso si nota in teatro, diventa sostanziale perché va a modificare profondamente l'interpretazione degli attori, permettendo loro di sussurrare, di parlare a se stessi, senza la preoccupazione di portare la voce fino all'ultima fila. E viene da chiedersi se l'intimità in teatro si costruisca con un microfono.
Marianna Norese
A chi ricorda uno dei più bei film di Joseph Losey, L'incidente, non possono essere sfuggite le somiglianze con The Country. Fin dall'inizio, in ambedue le vicende c'è una giovane donna in stato di shock, che viene raccolta sulla strada e portata in una casa di campagna, dove vive una coppia sposata con figli; e quella presenza ingombrante, meno casuale di quanto appaia, rivestirà un ruolo non secondario nella relazione della coppia.
Ho citato questa somiglianza (e consiglio a chi non conosce il film, con Jaqueline Sassard e uno strepitoso Dirk Bogart, di andarselo a vedere), perché non credo sia casuale, ma si tratti di una citazione consapevole: la poetica a volte surreale e stralunata di Martin Crimp discende dai lombi di Harold Pinter, che di quel film è appunto lo sceneggiatore. E l'assunto di ambedue le storie è la denuncia di come, sotto la superficie di rapporti coniugali a prima vista rispettabili e sereni, si scontrino tensioni, ipocrisie, menzogne.
Rispetto ad altri testi di Crimp messi in scena in Italia (lo ha fatto l'Accademia degli Artefatti, con Tre pezzi facili e Attemps on her life), qui troviamo una qualche apparenza di normalità, anche se il linguaggio (bellissima la traduzione di Alessandra Serra), a poco a poco, come la spia rossa di un allarme, segnala segreti, vergogne, misteri, che peraltro il testo non si preoccupa di svelare appieno, chiudendosi con un finale sospeso, non risolutore.
La regia di Roberto Andò riesce a tenere sotto controllo una materia narrativa e drammaturgica volutamente sfuggente, come sabbia mobile, ove il razionale e l'irrazionale, il vero e il falso, la realtà e l'invenzione si mutano ogni volta nel loro contrario; dipanandola in una scansione temporale mai del tutto dichiarata, ma suggerita da un uso sapiente delle luci; creando un crescendo di tensione che inchioda lo spettatore per quasi un'ora e mezza (senza intervallo) in un silenzio sospeso e vigile.
Il progetto registico risulta ben assecondato dagli interpreti. Nel ruolo di Corinne, la moglie, Laura Morante sa declinare la sua naturale, fascinosa bellezza in una molteplicità di registri espressivi, creando un personaggio dinamico, contraddittorio, ad un tempo cocciuto e fragile, generoso e dispettoso. Gigio Alberti dipinge con efficacia l'ambiguità del marito, il medico Richard, i suoi scarti comportamentali, il codardo asservimento a Morris (un enigmatico personaggio che non compare mai in scena, ma la cui presenza è incombente), riuscendo tuttavia a proporsi come personaggio accattivante e quasi simpatico. Ma la rivelazione di questo intrigante allestimento è la giovane, attraente e brava Stefania Ugomari Di Blas che, per nulla intimorita dal confronto con la consolidata notorietà ed esperienza professionale dei suoi compagni di lavoro, affronta con piglio autorevole il ruolo di Rebecca, nodo della complessa ed ambigua rete di relazioni oscure che avvolge i protagonisti, restituendo in modo credibile ed efficace il personaggio non facile di una ragazza ad un tempo raffinata, sensuale ed arrogante.
Claudio Facchinelli