di Carlo Goldoni
Teatro Lirico
regia Giorgio Strehler
con la Maestri, la Volonghi, il Brogi, il Pani, la Gravina, il Garko, la Piccolo, la Ceccarello, lo Scotti, il Gottardi, il Crovetto, il Mauri
Corriere Lombardo, 30 novembre 1964
Guarda là, che cosa può capitare per la rustica galanteria di un bulletto perdigiorno a piedi scalzi! Il "bezzo" di "zucca barucca" che quella carognetta disoccupata di Toffolo Marmottina offre alla puntigliosa Lucietta è, per Le baruffe chiozzotte (1762), quello che il fazzoletto per soffiarsi il naso regalato dal moro a Desdemona è per l'Otello. Non ci scappa il morto, è vero, perché il sangue non fa per Goldoni, tuttavia luccicano i coltelli, due matrimoni rischiano di andar per aria, due famiglie – strepiti, minacce, botte – corrono pericolo di mettersi l'una contro l'altra come Montecchi e Capuleti, e mezzo paese vive, per ventiquattro ore, nello spavento di finire nelle patrie galere della Serenissima. Un nulla crea un mondo; perfetto, concluso ed eterno nella inafferrabile volubilità del suo mobile trascorrere, enorme nella precisione della sua limitatezza, profondamente serio nella contemplativa obbiettività del suo indifferentismo morale.
Dipanando il filo della memoria – Goldoni, si sa, esercitò per breve tempo a Chioggia la funzione di "cogitore" e il personaggio che, nella commedia, vi corrisponde, è autobiografico – crea un documento di verità totale ma che, proprio per essere tessuto col filo della memoria, è nello stesso tempo e indissolubilmente, creazione della fantasia, luogo di incontri sincerissimamente vissuti senza margini e senza frange che non siano la vita stessa e, insieme, - ecco il miracolo! – armoniosamente favolosi nello slancio un po' esaltato di una vaga ebrietà che deforma appena appena sé stessa contemplandosi nello specchio della parodia. Verità offerta come gioco e gioco che si restituisce alla verità; segreto che, nel contesto di uno spettacolo, sotto altri aspetti, pregevole, ieri sera è andato perduto, anzi, per essere precisi, è stato consapevolmente e deliberatamente ignorato.
Sembra, qui, che Goldoni non inventi, non predisponga, non architetti nulla, ma che scopra soltanto, precedendo a caso; e qualcosa fuori da lui, per lui, lo spirito arcano della musica, non mai altrettanto libero e felice, starei per dire anacronisticamente, una volta tanto impressionistico, provveda a guidare e a selezionare le scelte offerte dall'inesauribile disponibilità, alla magica sicurezza del suo infallibile istinto della scoperta, indiizzandole verso un ordine in apparenza gratuito, eppur irrevocabilmente necessario.
Un senso, un fine? Ma nessuno, se non il più importante, a riflettere bene, terribile e fatale: quello indefinibile e irraggiungibile, e tuttavia miracolosamente, di momento in momento, definito e raggiunto: per venir cancellato e abbandonato il momento dopo: e, al successivo nuovamente ripreso, e così via, incessantemente: cogliere l'eternità dell'attimo trascorrente, afferrare la perennità del fugace: in altre parole, contraddire, confermandola, l'irreversibilità del gesto, della sensazione e dell'esperienza vissuta. Siamo a un esempio insuperato di quella che oggi si suole classificare arte aperta: una delle rare, stregate opere sovrane che, per intendermi con me stesso, io chiamo circolari. Senza, cioè, né un principio, né una fine, né una accelerazione, né il suo contrario: qualsiasi pagina si apra, potrebbe esserne l'inizio; qualsiasi pagina si chiuda, potrebbe esserne la conclusione. L'intenzione di tutto ciò – mi fa piacere dichiararlo – nella rappresentazione del Piccolo Teatro la si avverte. Così non fosse di qualcos'altro.
Come, nello sterminato paesaggio della produzione goldoniana, I rusteghi sono il capolavoro della commedia borghese, così nel trionfo dell'inedita invenzione di una corale pluralità che non fu di nessun altro commediografo Le chiozzotte sono il capolavoro della commedia popolare. Che non vuol dire, sia ben chiaro, né popolaresca né proletaria, tanto per indicare due errori di interpretazione; il primo, salvo l'eccezione di Simoni, più o meno perpetrato fino ad oggi; il secondo, fortunatamente soltanto sfiorato – seppure, mi sa così a naso, con la scaltra intenzione di insinuarlo – ieri sera da Strehler, sull'ingrata e sorda vastità del teatro Lirico, il meno adatto, anzi il più negato alla prosa; che ci ha fatto perdere, quando addirittura non ci ha letteralmente impedito di udire, molte battute della commedia e ha disperso parecchie finezze della regia. Se col regalo del tempio sacro alla Wanda e a Carletto Dapporto, il Comune crede di aver risolto il sacrosanto e annoso diritto del Piccolo Teatro ad avere una sede adatta alla sua importanza – qui non è questione della sua presuntuosa invadenza – se lo tolga dalla testa. Dio solo sa che genere di repertorio drammatico vi si possa rappresentare, se nemmeno la spettaoclosità e il sopratono delle Baruffe chiozzotte riescono ad averne ragione.
Ve li immaginate, in quella piazza d'armi Gl'innamorati, La parigina, Ibsen, Molière, Praga? Sì e no ce la farebbe Il trovatore seppur non fosse necessaria l' Aida.
Con questa, che non è la sua miglior regia goldoniana – come dimenticare il prodigioso incontro della Trilogia della villeggiatura? – Strehler, rifiutando la concezione sulla quale sono ormai d'accordo il novanta per cento degli studiosi: dal Levi – lo si dimentica sempre questo antico e grande maestro – che è stato il primo, al Flora, al D'Amico, all'Apollonio, al Bernardelli, a tutti più o meno, non ci si accuserà questa volta di essere i soli; e cioè la natura favolosa che è alla base della "verità inventata" dal poeta, è per così dire, regredita verso l'accettazione di un realismo senza aggettivi, puro e semplice, per non dire di un naturalismo documentaristico, sia pure raffinatamente, troppo raffinatamente data la posizione assunta, decantato e aristocraticizzato.
Col vantaggio non indifferente, bisogna riconoscerlo, di aver inequivocabilmente stabilito e messo in evidenza la fondamentale serietà del mondo poetico dello scrittore, ma a svantaggio della sua incomparabile fluidità, scioltezza e fantasia e a prezzo di alcunché di intellettualisticamente predisposto, costruito, rigido, pacato, poco spontaneo e – contraddizioni che capitano! – scarsamente popolare. Momenti belli, anzi bellissimi, non mancano: il calare improvviso benché fugace di certe meditative malinconie genialmente inserite nei momenti di più alacre festosità, quella generale furlana alla fine, assediata e come riassorbita dal crepuscolo autunnale, il monocromo, quintessenziato realismo, tutta una variazione di grigi della spaziosità albale che ha richiesto al Damiani per le scene alle quali corrispondono costumi altretatanto spenti: quella stessa fastidiosa zona di buio sull'avanscena che ingoia e annulla ogni tanto i personaggi, tenuti sempre in controluce, con un effetto di distaccato estraniamento – eh già! – tutti i tocchi, insomma, intimistici del suo programtico realismo. (Sarà una mia vecchia idea, ma la nota più autentica che fa poeta, quando lo fa, questo regista è di qualità crepuscolare). Non affermerò brutalmente come ho sentito dire da qualcuno all'uscita... che, dopo aver tirato a Cechov Il Goldoni della Villeggiatura, oggi ha tirato a Verga il Goldoni delle Baruffe senza che, questa volta, il colpo gli sia riuscito, ma nella spicciativa condanna qualcosa di vero c'è.
Negati alla recitazione, lo smalto, l'estro e la comicità dell'impalpabile ma indiscutibile sopratono di autocaricatura, vaga civetteria narcisistica, posseduto dai personaggi, gli attori, non tutti ineccepibili quanto ad accento – ve lo dice un veneto che Chioggia la conosce – hanno messo ogni loro cura nell'affiatarsi in umana autenticità, e l'hanno fatto assai bene tutti: i vecchi quanto i giovani, alla fine coinvolti nel solito iperbolico successo del Piccolo Teatro: la Maestri, la Volonghi, il Brogi, il Pani, la Gravina, il Garko, la Piccolo, la Ceccarello, lo Scotti, il Gottardi, il Crovetto, il Mauri. Il Valdemarin era il personaggio autobiografico del "cogitore" e goldoneggiò con divertita indolenza, a metà spettatore e a metà consigliere e mentore del piccolo mondo che la memoria avrebbe trasformato in poesia grande.
Carlo Terron