Corriere Lombardo, 4 gennaio 1954
Cominciamo subito col gas. Si apre il sipario e si vede una donna riversa sul pavimento davanti al fornello aperto e già priva di sensi. Appena s’è potuto abituare al buio della scena, il pubblico intravede nella meschina le fulve chiome di Andreina Pagnani e tira un sospiro di sollievo: prima o dopo, quella donna riacquisterà la conoscenza; è assolutamente escluso che la prima attrice venga messa fuori combattimento prima ancora che sia cominciata la commedia e senza pronunciare nemmeno una parola.
Difatti, le esalazioni filtrando dalle fessure – inconveniente delle case malandate come questa – han messo in sospetto gli inquilini di un appartamento vicino. Essi sfondano la porta e con l’aiuto di un medico che si dichiara non medico riescono a salvarla. Lì per lì, essi credono che si sia trattato di una disgrazia dovuta alla difettosa erogazine del gas, come ne accadono a Milano. Ma a Londra pare che il gas si comporti molto più giudiziosamente; e quando scoprono una lettera bene in vista sulla cornice del caminetto indirizzata al compagno della sua vita, benché si tratti di inglesi, la gente notoriamente meno indiscreta di questo mondo, non possono fare a meno di capire: la povera donna ha tentato di suicidarsi. Si dice “suicidio per amore” e si crede di aver detto tutto. Senza nemmeno essere stato abbandonato, soltanto perché si sente disamato o mal amato, uno decide di togliersi la vita. Ma come non ci sono due nasi eguali, non ci sono due suicidi e tanto meno due amori eguali. Le ragioni dello stesso atto, l’intensità e la qualità dello stesso sentimento sono infinite e diversissime.
Vediamo, se è possibile, quali esse sono nella protagonista della nuova commedia di Terence Rattigan – l’autore, tanto perché sappiate regolarvi, di quel Cadetto Winslow che si sta, proprio in questi giorni, replicando in un altro teatro milanese – rappresentata con molto successo ieri sera all’Odeon dalla Compagnia Stabile di Roma. Già il titolo può servire di indicazione: Il profondo mare azzurro; intendendo con tale immagine un tuffo cieco e disperato nella incontrollata profondità e pienezza del sentimento ubriacato dal sesso. Lady Ester Collyer, dopo essere stata per sette anni la irreprensibile consorte di sir William Collyer, alto magistrato di Sua Maestà Britannica, ha incontrato un pilota dell’aviazione militare appena congedato. E’ quel che si chiama il tradizionale colpo di fulmine. Essa ha sentito di essere totalmente e irreparabilmente la sua donna; diciamo tanto per essere originali: anima e corpo. E lui, a suo modo, ha sentito altrettanto. Il guaio è che i modi non sono eguali. Lei tutta sensibile, tutta delicatezza, tutta vulnerabile ed esasperata morbidezza intellettuale; lui, semplice, banale, distratto da tanti piccoli egoismi. Due mentalità, due mondi, due educazioni; destinati l’uno all’altro eppur negati a un’autentica comunione. Nasce l’infelicità della diversa qualità e del diverso tono dell’amore che lega due esseri. Ci si può amare, non riuscire a fare a meno l’uno dell’altro e tuttavia, con la maggior buona volontà, costruire l’uno per l’altro una dannazione, la causa determinante della reciproca disperazione.
Si tratta di una vecchia verità che però, a mio modo di vedere, la commedia ha il meritop di esemplare e di indagare con vivida e sottile e sofferta finezza. Ester Collyer ha lucidamente compreso la situazione fin dal primo giorno che ha seguito l’uomo amato abbandonando marito, famiglia, amici, rango, tutto, e adattandosi a vivere, sanguinandone nella sua più gelosa interiorità, una vita di meschini ripieghi, di morali compromessi, di tristi accettazioni. Vicino a un uomo – oltretutto – che, dopo essere stato poco meno di un eroe, ora è un fallito il quale si aiuta a tenersi su coll’alcool. Quella sera essa ha voluto uccidersi perché lui si era dimenticato che era il suo compleanno. Una circostanza banale e apparentemente trascurabile, come tante altre. Ma sufficiente a esasperare il senso di umiliazione e di vergogna per la schiavitù sessuale della quale si sente prigioniera una donna che può forse tollerare il disprezzo degli altri ma non può vivere senza il rispetto di se stessa.
Nella commedia importano più i complessi moti psicologici che i fatti veri e propri, i secondi, anzi, non servono ad altro che ad arroventare e far precipitare i primi. Interviene l’abbandonato marito pieno di indulgenza, di comprensione, anzi d’amore; e le propone di ritornare con lui. Essa rifiuta. Anche con lui, su altro piano, era stata la stessa cosa. Cercava l’amore e non aveva trovato, non troverebbe, che l’affetto. Il suo insomma, se ho ben capito e credo di aver ben capito, è il dramma di una donna che ha da dare molto di più di quanto l’essere amato, e che la ama, sia disposto non dico a ricambiare ma a ricevere.
A rompere la catena tragica sarà il pilota accettando di partire, e solo, per l’America del Sud come collaudatore – praticamente destinato, prima o dopo, a rimetterci la pelle – di aeroplani. Dopo aver toccato ulteriormente il fondo dell’umiliazione nell’angoscioso tentativo di trattenerlo, piangendo e implorando, almeno una notte ancora, essa decide nuovamente di uccidersi. Questa volta, il salvataggio sarà anche morale, da parte del medico che l’ha salvata la prima volta, e che, avendo fatto l’esperienza anche lui, dell’onta e della condanna in un processo per certi esperimenti in corpore vili andati male, è in grado di soccorrere con l’esempio e la rassegnazione della sventura e della solitudine proprie la sventura e la solitudine altrui. Sia pure con la morte nel cuore, essa troverà la forza di rinunciare finalmente e per sempre all’uomo che in un’improvvisa respiscente debolezza forse sarebbe ancora disposto a tornare sulla decisione di separarsi da lei.
La commedia non sarà un capolavoro ma, francamente, non riesco né a capire né, tantomeno, a condividere la severità con cui l’hanno accolta i miei colleghi romani. A me sembra opera degnissima di un più che degno commediografo. E non solo per l’abilità formale e la precisione del dialogo, ma anche e specialmente per un sincero e partecipe e sofferto pudore posto nell’indagine di sentimenti non certo eccezionali ed inediti ma sinceramente umani. Le derivazioni del personaggio sono fin troppo scoperte, è vero, e toccano genericamente Madame Bovary e in un modo specifico, fino direi a rasentare involontariamente il plagio, l’indimenticabile Thérèse Desquyeroux di Mauriac. Nobiltà di modelli la quale, fino a un certo punto, garantisce della nobiltà dell’opera che ne è il riflesso.
Della ventina e più di chiamate tributate allo spettacolo dal pubblico milanese, almeno dieci vanno ad Andreina Pagnani che ha recitato con l’anima fra i denti illuminando ogni aspetto del personaggio con dolore disperato rattenuto dalla dignità umiliata. La verità di Carlo Ninchi, la sensibilità di Aroldo Tieri, il limpido stile di Carlo D’Angelo, la schiettezza di Margherita Bagni, la precisione di Fulvia Mammi, di Nino Dal Fabbro e di Adolfo Geri, ordinati nelle intelligenti prospettive disposte dalla accorta regia di Luigi Squarzina a cui Mario Chiari ha fornito una discutibile ma assai suggestiva scenografia, vanno lodati senza riserve. Tutto questo, bensintende, non deve essere preso come un invito al suicidio col gas tutte le volte che qualcuno si dimentica il giorno del nostro compleanno (se non altro, perché toccherebbe poi a chi resta pagare la bolletta).
Carlo Terron