Corriere Lombardo, 23 dicembre 1953
E’ quasi un secolo che letteratura e teatro si divertono al gioco del crepuscolo degli Dei, sgonfiando miti e sberteggiando eroi. Cominciò l’allegro Offenbach; e, tutto considerato, nessuno di coloro che son venuti dopo è ancora riuscito a superarlo in parodistica fantasia; fors’anche perché probabilmente il genere meglio adatto a questo esercizio, sempre un po’ vagamente goliardico, resta proprio l’operetta, con le sue possibilità di sorprese ritmiche e invenzioni vocalistiche. Vedere e ascoltare Giove, Venere, Paride, Achille e l’olimpica compagnia raccontarsi i fatti loro in couplets a tempo di mazurca e compiere le loro cerimonie eroiche in movimento di valzer è già di per sé stesso, indipendentemente da ciò che possono dire o fare, un divertimento che colpisce nel segno quel senso di smontatura dell’atteggiamento dell’uomo paludato in una dignità e in una funzione ufficiale qualsiasi, che è uno dei principali elementi del comico.
Figurarsi se poteva mancare all’appuntamento la spregiudicata gaiezza di André Roussin, Delfino sempre in aspettativa della promozione a commediografo satirico di turno nella dolce e, in queste cose, ottimistica Francia. Abbiamo sempre pensato che, prima o dopo, ci sarebbe giunto. E infatti ciò è puntualmente avvenuto ieri sera con Elena, ovvero la gioia di vivere. Un altro bersaglio non del tutto centrato, un altro tranquillo traguardo non superato. Il Delfino rimane ancora un Delfino. Noi abbiamo pazienza e aspettiamo. Abbiamo sentito dire che un giorno dovremo salutare nell’intraprendente e simpatico giovanotto un degno successore di Feydeau, addirittura imparentato, -- alla lontana, ma imparentato, -- a Molière, e aspettiamo. Tanto non ci costa niente. Per stanotte intanto abbiamo sempre la risorsa di ingannare l’insonnia rileggendoci l’Anfitrione, certi che, almeno lì, non avremo delusioni.
Dunque, anche Roussin è arrivato a darci la sua “bella Elena”. Ci è arrivato in modo comodo e mediato, associandosi nella fatica una certa Madeleine Gray che sentiamo nominare per la prima volta e chiediamo scusa. E fin qui niente di male. Se la commedia non ha nient’altro di nuovo offre almeno la novità di una collaborazione fra maschio e femmina. E’ già qualche cosa. Ma, per eccesso di prudenza, il copione ha poi pensato bene di affidarsi al popolare romanzo americano di John Erskine apparso nel primo dopoguerra e intitolato The private life of Helen of Troy: La vita privata di Elena di Troia che voi tutti conoscete se non altro perché ne è stato ricavato un film. Visto che esiste il romanzo, visto che esiste il film è un vero peccato che non ci sia anche una commedia, devono aver pensato gli autori. E hanno rimediato alla ingiustizia.
La guerra di Troia è terminata. E’ cominciato il dopoguerra. Si smobilita l’eroismo imperialistico dei greci e comincia il periodo della vita borghese di tutti i giorni, sempre difficile per i condottieri di professione. Dopo quel po’ po’ di scandalo che aveva fatto scoppiare la guerra a causa della fuga di Elena con Paride, il cornuto ma vittorioso Menelao – càpita anche a dei grandi generali moderni e non c’è da indignarsene troppo – si riporta a casa la moglie becco e contento fra la disapprovazione dei benpensanti di Sparta, ché altrimenti non si sarebbero più potuti chiamare “spartani”; e comincia la solita vita del grand’uomo vittima della propria moglie.
Elena, non per niente, ha la “gioia di vivere” in corpo. Essa non è affatto pentita di ciò che ha fatto. Tornerebbe a rifarlo ancora, persuasa com’è che solo l’esperienza sorprendente, la ”evasione” improvvisa, l’abbandono ai capricci del sangue e alle fantasie del sogno e le forti emozioni possono, più tardi che sia possibile, fare una buona moglie, quando abbia commesso l’errore di sposare un uomo scarsamente poetico, insufficientemente atletico e soprattutto scarso di sex-appeal. Le baruffe in famiglia cominciano subito a proposito della figlia Ermione la quale si è fidanzata al cugino Oreste ancora buon ragazzo di famiglia, inconsapevole di quanto sta per avvenire a casa sua quando suo padre il grande Agammenone metterà piede nella reggia di Argo e verrà assassinato dalla consorte Clitennestra e dal suo ganzo Egisto. “Oreste non è l’uomo per Ermione”, sentenzia Elena. “Che vuoi che ne faccia di un borghese bene educato senza sangue nelle vene? Oreste è come te. Nella migliore delle ipotesi o lei sarà infelice o lui sarà becco. Diamole invece per marito quel mezzo energumeno di Pirro figlio di Achille e tutto andrà bene. Lascia giudicare a me che di queste cose ho esperienza”.
Per un poco, anzi per troppo, si va avanti con questo tira e molla del matrimonio contrastato. Intanto Oreste, informato del fattaccio, fa una scappata a casa e trucida in quattro e quattr’otto la madre e l’amante della madre, mettendosi in regola con la storia. Ad onta che Clitennestra – buon sangue non mente! – fosse sorella di Elena, come del resto, lo sapete, no? Agamennone era fratello di Menelao -- destini paralleli! – la tempestiva decisione e la spicciativa energia dimostrata dal nipote fanno una eccellente impressione su Elena che si mette a considerare con simpatia la eventualità di diventar sua suocera.
La simpatia si trasforma addirittura in entusiasmo quando arriva la notizia che Oreste, presoci gusto, ha fatto fuori per pura permalosità anche Pirro che frattanto era giunto a Sparta. Ad essere perplesso sulla opportunità del matrimonio è ora il prudente buonsenso di Menelao. Ma ciò che Elena vuole gli Dei lo vogliono. Ermione e Oreste si sposano e se ne vanno. Arriva in visita Telemaco figlio di Ulisse, diciannove anni e un fusto di ragazzo che pare una colonna dorica. In Elena si ridesta la gioia di vivere. A diventare la placida moglie di Menelao c’è sempre tempo. Carpe diem, la vita è bella. Ed è tutto.
Quello che è ammirevole nella commedia è soprattutto la faccia tosta di avventurarsi in un esercizio di pura e semplice e deserta parodia escludente ogni e qualsiasi chiave diversa, tirandola lunga per tre atti con un pretesto a malapena sufficiente a uno sketch di rivista nemmeno eccessivamente originale; ed è prova di una invidiabile e ottimistica fiducia nella buona sorte spigolando una gaia farsetta di spirito discutibile nel solco in cui Giraudoux ha mietuto fiori di autentica poesia.
Il successo tributato ieri sera all’Odeon alla commedia va inteso come rivolto unicamente alla Compagnia stabile di Roma diretta da Guido Salvini che ha composto un gradevole ed elegantissimo spettacolo; e in special modo ad Andreina Pagnani alla quale è bastato ostendere i fascini di quella sua musicale bellezza, rispecchiata da una fin troppo musicale recitazione, per rinnovare l’eterno miracolo di Elena e mettere la platea ai propri piedi. Egualmente lodevoli l’umoristica e saggia rassegnazione menelaica di Carlo Ninchi, la grazia puntigliosa e stupita di Fulvia Mammi, la comica assennatezza di Romolo Costa e la muta venustà di Mauro Conti. La bella e luminosa scena di Guido Coltellacci – autore anche dei magnifici costumi – era popolata di una decina di statue nude, chissà perché tutte maschili. Le loro vergogne però in rispettoso omaggio alla censura erano pudicamente coperte.
Di mazzi di fiori. Freschi.
Carlo Terron