Corriere Lombardo, 16 dicembre 1949
Attenti a non prendere un raffreddore dovendo passare dalla neve così ben conservata delle strade di Milano, alle sabbie roventi dell’oasi tropicale sulla quale si svolge la commedia di André Roussin. Questo Roussin è un “caso”, anzi un bel caso. Non propriamente un caso letterario, ma un caso teatrale sì, anche se riguardante poco la storia del teatro e molto quella del borderò. Scoppiato inopinatamente come il morbillo proprio con La capannina, rappresentata ieri sera da Melnati all’Excelsior, e che al suo paese ha già superato la millesima replica, s’è repentinamente diffuso sui palcoscenici parigini con la virulenza di una epidemia. Da un anno, quale più e quale meno, tre commedie sue tengono contemporaneamente il cartellone. Oltre a La petite hutte, Nina fatica particolare di Elvira Popescu, e Le uova dello struzzo rigorosamente preclusa ai palcoscenici italo-democristiani dalla censura governativa al servizio dell’Anno Santo. Sono commedie che la critica, quando non s’è irritata, ha preso sottogamba. Ma il pubblico continua ad assediare i teatri dove si rappresentano, ciò che ha pure la sua importanza. La spiegazione del fenomeno, meno raro di quel che si crede, di un copione sdegnosamente respinto dalla letteratura ed entusiasticamente accettato dagli spettatori, sono meno misteriose di quanto molti hanno mostrato di sospettare.
Prima di tutto, André Roussin è un attore con l’istintivo e infallibile senso pratico del palcoscenico e una straordinaria sensibilità della battuta risolvente; e, in secondo luogo, possiede la coscienza, stavo per dire l’orgoglio, della modestia dei propri limiti entro i quali sa manovrare da grande stratega. È soltanto una tempesta in un catino ma con tutta la apparenza di una tempesta vera. Ciò premesso, è chiaro, tutto dipende esclusivamente dall’esecuzione, in altre parole dagli attori capaci di spremere il limoncino del copione. Fiasco o trionfo esso dipende tutto ed esclusivamente da loro.
Nel genere piccola commedia, fin dal titolo, questa Capannina, è un modello. Tre naufraghi ai vertici dell’eterno triangolo: marito, moglie e amante della moglie si trovano di colpo sbattuti su un’isola deserta, gli uomini in frac e la donna in abito da sera, due capanne, una grande capanna matrimoniale e una capannina da scapolo. Ma qui non è come nel consorzio civile e riesce difficile la strategia dell’adulterio tradizionalmente consacrato. C’è soltanto una donna fra due uomini se non proprio una femmina fra due maschi. Occorre semplificare e l’amante decide, lì per lì, di mettere le carte in tavola e difendere i propri diritti davanti all’amico. Il quale non fa tante scene, si rassegna e si mettono subito d’accordo su un compromesso: la donna vivrà maritalmente una settimana con l’uno e una settimana con l’altro.
Ciò produce delle conseguenze abbastanza curiose e cioè, in un certo senso, l’amante assume la psicologia del marito e il marito quella dell’amante. Il primo si riempie di dubbi, di gelosie e di preoccupazioni e il secondo si entusiasma e si eccita di peccaminose, proibite e ignorate sorprese. A un certo punto, colui che si ribella è l’amante e il marito si dà da fare a persuaderlo dei vantaggi della nuova situazione. Quando poi si presenta un atletico negro e, dopo aver legato i due naufraghi ad un albero, senza tanti riguardi, esercita i suoi diritti di preda sulla donnina, lusingatissima di venir violentata da un re della foresta, il legittimo consorte prende la faccenda con filosofia come una naturale e inevitabile legge del vivere primitivo, e l’amante soffre le pene dell’inferno, morsicato dalla più furiosa gelosia. Finalmente arriva una nave a trarli in salvo. Rientrando nella regola civile tutto torna come prima. I due amanti fanno credere al pacifico cornuto di aver rinunciato per sempre all’esercizio dell’adulterio e così possono concordemente riprendere le cose al punto come erano prima di far naufragio; e il negro, che non era un indigeno ma soltanto il cuoco di bordo, sbarcato sul versante opposto dell’isola, torna un disciplinatissimo e rispettosissimo domestico. Sono finite le vacanze della morale e ricomincia normalmente l’esistenza regolare ed educata.
Non è certo il caso di disturbare grosse parole come immoralismo e amoralismo, né ricercare particolari valori di psicologia, e tanto meno parlare di sarcasmo, di ironia intenzionale, di satira del costume e cose simili, anche se c’è stato qualche sprecone che ha avuto il tupè di definire André Roussin “un Becque minore” (!). La commedia si appaga e si compiace di molto meno. Un gioco e uno scherzo azzeccatissimi. In essa le cose più enormi e più assurde vengono dette nel modo più naturale e disinvolto di questo mondo. E se un’originalità, non dico ancora uno stile, le si vuol trovare, potrebbe essere proprio qui: nell’aver trasferito e risolto nel dialogo tutta la paradossalità impassibile che certo fortunatissimo cinematografo comico americano ha applicato ai fatti, alle vicende e ai personaggi.
Tutto sta nel modo come queste cose vengono recitate, si diceva più sopra. Ieri sera se ne è fatto uno spettacolo spassoso e frequentemente applaudito anche se risolto in una maliziosità piuttosto facile che mordente, e ciò a causa dell’approssimativa pronuncia dell’interprete femminile. Umberto Malnati e Corrado Annicelli, l’uno nel genere stupito e rassegnato, l’altro nel genere virulento e risentito, si sono fatti molto applaudire, Duilio Provvedi è stato un negro aitante e sornione, e Christy Cleyn ha impiegato molta acutezza e molta volonterosità anche se i risultati sono stati quelli di una specie di involontaria recitazione alla Stan Laurel al femminile. Ciò che, del resto, ha pure una sua grazia.
Carlo Terron