La Notte, 15 marzo 1976
Cominciamo spiegandovi in che consiste il cosiddetto decentramento. Con l’Odeon e il Manzoni occupati dalla roba da cui sono occupati, sabato, il Teatro Stabile di Roma, se ha voluto poter rappresentare, per qualche sera, anche a Milano – una “prima” millenaria, penso – il Filottete di Sofocle, ha dovuto trasferirsi al Teatro Uomo, là, in via Gulli. Non so se mi spiego.
Tragedia senza donne, sono sostituite, in compenso, da un vago sentor di omofilia, penultima andata in scena alla vigilia della morte del poeta già quasi novantenne – l’ultima, postuma, sarà il sublime Edipo a Colono – è considerata la più debole delle sette rimasteci sulle centotrenta (!?) che ne scrisse. Beninteso, con padreterni della sua taglia, il concetto di debolezza è quel che è, e può costeggiare egualmente le rive del capolavoro.
Se della bilancia della tragedia greca Eschilo ed Euripide occupano i due piatti, Sofocle ne rappresenta l’ago. Meno tipico e personalizzato, meno esplicitamente originale, se si vuole, sia dell’uno che dell’altro; e tuttavia in una posizione di conciliatore, vertice, fastigio, se si guarda esclusivamente al risultato poetico. Del primo, contempera, attenua, smussa la biblica terribilità sacrale; del secondo scioglie in pia umanità e religiosa rassegnazione il laicismo razionalistico e stempera in intima tolleranza le predilezioni polemiche, ignorandone le punte blasfeme e sottraendosi alla disputa per la disputa tanto cara al poeta di Medea. Miracolosa posizione di intermedio equilibrio; non privo, forse, di ambiguità e di un ben celato conformismo se non opportunismo, ragione, probabilmente, non ultima della predilezione della quale privilegiò in confronto agli altri due, presso i contemporanei dei quali interpretò e testimoniò compiutamente l’animo. Non per niente, contro le tredici vittorie drammatiche di Eschilo e le sole cinque di Euripide, stanno le diciotto sue.
Dal sovrannaturale all’umano. Quelle che, in Eschilo, sono figure del Mito, in Sofocle son creature soltanto eroiche, partecipi della terrestre umanità. Nel primo, il dramma è esclusivamente condizionato e riassorbito dal Mito; nel secondo è il Mito ad essere condizionato e riassorbito dal dramma; che si fa dinamico, psicologico, vario fino a sfiorar il romanzesco (già il “melodrammaticismo” di Euripide incalza) pur nell’aurea proporzione della sua persistente stringatezza.
Nella mobile sensibilità dalle impreviste disponibilità, nella elevatezza morale, nella consapevolezza di sé stessi, nella profonda eppur controllata passionalità, nell’ardito, intenso volontarismo, i personaggi sofoclei, ancora oppressi ma già non più schiacciati dal Fato, non ancora ribelli ma già non più passivamente succubi, piegati ma non persuasi alla sventura, attingono un’autonomia – oltreché una compatta unita – che, riconoscendo il proprio principio ed il proprio fine in se stesso, conferisce a tutta l’opera del poeta una sovrana estraneità, una superiore e distaccata contemplazione della mutevole realtà contemporanea, svincolata dalle filosofie o dagli eventi storici della grande stagione mortale del loro creatore: il più alto momento della civiltà greca. La loro humanitas, la loro pietas si pongono come trascendenti ed eterne categorie dello spirito, vale per essi, e sempre più varia col procedere dell’opera, l’estrema interrogazione nella quale è implicita la risposta, dell’ultimo e più infelice di loro, Edipo a Colono al termine di un’espiazione religiosamente accettata ma moralmente non condivisa: “Qual colpa è la mia se non volli, se non seppi?”.
È una domanda che Filottete non si potrebbe porre nemmeno. L’imperativo categorico sul quale si regge, e che Glauco Mauri, sia regista sia interprete, ha messo in particolare evidenza, è, diggià, esclusivamente morale; e, quel che conta, lo annuncia un personaggio nuovo, tutto di invenzione, senza riscontro nei precedenti eschilei ed euripidei che avevano, molti anni prima, trattato il medesimo argomento e che si può considerare un coprotagonista: l’adolescente Neottolemo, l’uomo di domani, atteso ancora dopo due millenni e mezzo, per il quale il fine “non” giustifica i mezzi, credo indiscusso e persistente dell’astuto Ulisse.
Il Mito, appartenente al ciclo troiano, narrava, che, sceso sull’isola di Lemno con gli altri capi greci, mentre navigavano verso Troia, Filottete era stato morso, ad una gamba, da un serpente, con la conseguenza di una piaga insanabile dolorosissima. Causa l’insopportabile fetore da essa emanato, gli altri eroi greci l’avevano abbandonato sull’isola deserta con l’unica risorsa del suo arco miracoloso già appartenuto ad Ercole. Dieci anni di una solitudine atroce, esasperata dai patimenti e dall’odio per i suoi compagni, specie il solito Ulisse, artefice principale del tradimento. Ora, sull’isola, approda proprio Ulisse in compagnia di Neottolemo, figlio del defunto Achille. Un oracolo ha vaticinato che Troia cadrà solo se, tra gli assedianti, sarà presente Filottete munito del suo arco infallibile. Siccome l’inferocito eremita, ad Ulisse non cederebbe mai, costui persuade il giovane a guadagnarsene la fiducia facendogli credere di riportarlo in patria, imbarcandolo con l’inganno dopo avergli, sempre con l’inganno, carpito l’arco famoso. Nel frattempo, tra il vecchio credulo e riconoscente e l’impietosito giovinetto è maturato, inespresso, un tenero legame socratico, un morbido sentimento inavvertito – altro discretissimo tema di modernità – e Neottolemo, in un incoercibile impulso di sincerità, non può più tenergli nascosto l’imbroglio e rifiutarsi di mandarlo avanti. Ma, deus ex machina, (riecheggia Euripide!) Ercole, dal cielo, lo ammonisce che il volere degli dei è che egli si rechi a Troia. Il vegliardo obbedisce e, sostenuto dal giovane, si avvia verso la nave.
Senza rinunciare all’idealizzazione di un vigoroso realismo, esaltato da tonalità eroiche, Glauco Mauri, con intelligenza critica acuta e discreta, ad un tempo umile e consapevole, ne è stato regista e protagonista di grande spicco, assecondato dall’insolita originalità del commento sonoro continuo di Luciano Berio, nonché dai costumi e dalla scena di Corrado Cagli – una gradinata sghemba sovrastata da un contorto e tormentato traliccio d’acciaio – attualisticamente ardita; mentre, tra la recitazione ragionata dell’Ulisse di Franco Alpestre e quella chiara del Corifeo di Attilio Corsini, s’è portata autorevolmente in primo piano l’appassionata sincerità del Neottolemo del giovanissimo Roberto Sturno, sorpresa del testo e della Compagnia.
Carlo Terron