Il Tempo, 1 aprile 1961
Una trentina d’anni è già sufficiente, in molti casi, a “datare” irreparabilmente un romanzo. Che dire, poi, d’una commedia? Orbene, da un racconto di François Mauriac, stupendo per l’inquietante angoscia che testimonia, ma già abbastanza datato, Diego Fabbri ha ricavato un copione che, nemmeno a farlo apposta, gli sarebbe riuscito altrettanto ulteriormente retrodatato alla lontana e fortunata stagione del naturalismo fin de siècle. Teatralmente ineccepibile per la calcolata abilità costruttiva e per la perentoria tensione drammatica, si direbbe spiccato dal repertorio del Théâtre Libre di Antoine, nel momento in cui il documentarismo di Zola si allarma al contatto del rigore morale di Ibsen. Un melodramma esterno che si sforza, senza troppo riuscirci, di incamerare un dramma interiore, confermando, una volta di più, la sostanziale inconciliabilità fra pagine e ribalta a causa della irriducibile forza materializzatrice del teatro, destino, più o meno, di tutte le “riduzioni”.
L’arte di Mauriac raggiunge il suo vertice con Teresa Desqueyroux superata, forse soltanto, dalla Fine della notte che ne è il seguito. Siamo, si può dire, al limite della via percorsa dai grandi scrittori cattolici. Per molto meno, al nostro Fogazzaro toccò di essere messo all’indice. L’etichetta della sofferenza e il postulato della grazia che può folgorare il dannato al termine dell’abiezione, secondo l’antico vizio giansenistico dei mistici francesi, hanno sempre sostenuto il peso di una ambigua letteratura della colpa che si alimenta delle proteiformi voluttà del peccato; immersa in un’aura dove l’odore dell’incenso si mescola all’afrore delle alcove. Anche a non volerci vedere il sogghigno di Freud, codesta letteratura sospesa sulle vertigini del male, ossessionata dai refoulements, del sesso, masochisticamente compiaciuta dell’avvilimento umano, offerto al Cielo non senza una certa dose di fariseismo che fa parte del gioco; dove l’atto di contrizione e la coscienza dell’indegnità contrabbandano in buonafede il gusto di assaporare le vergogne più segrete dell’animo e dei sensi in un torbido rapporto di repulsione ed attrazione, avrebbe una stretta parentela con quel postremo, estenuato e malsano fiore del romanticismo che si chiama decadentismo se, dietro a tutto ciò, non stesse un’illustre tradizione francese che ha le proprie radici nelle Liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos e nella Religieuse di Diderot a cui deve qualcosa perfino la Gertrude del Manzoni. Tanto per dire che Teresa Desqueyroux discende da un’antica prosapia che ha tutte le carte in regola. “Molti stupiranno”, dice l’autore, “che io abbia potuto immaginare una creatura ancor più odiosa di tutti gli altri miei eroi. Saprò mai, io, parlare degli esseri che grondano virtù e che recano il cuore in mano? I cuori in mano non hanno storia; ma io conosco quella dei cuori nascosti e strettamente avvinti a un corpo di fango. Avrei voluto che il dolore, Teresa, ti consegnasse a Dio…”. Già. Perdersi per salvarsi. Ma Teresa non si salva perché… “molti che pur credono alla caduta e al riscatto avrebbero gridato al sacrilegio”. A chi lo racconta? Teresa non si salva perché un’esigenza poetica non lo permette, ecco tutto. La sua inesausta ed irraggiungibile sete d’assoluto perseguita attraverso la via del male disinteressatamente percorsa, non lo consentirebbe altro che a prezzo di distruggere un’autonomia e una verità fantastica. Il tentato veneficio del marito, la paura, la viltà, l’accettazione del ricatto familiare che ne fa una reclusa, la divorante ansia di evasione senza meta, il suo perpetuo no a tutto, non glielo consentono. Soltanto la fedeltà a sé stessa, nella celebrazione indomita della propria perversità, le garantisce la libertà e sia pur essa la disperazione: quell’evasione dalla provincia a Parigi che ha tutta l’aria della conquista del diritto di essere accolta all’inferno come un’altra sarebbe accolta in paradiso.
Curioso, mentre, da un lato, esagera in scaltrezza teatrale ed eccede in effetti e sorprese da palcoscenico, quasi, si direbbe, volendo perseguire effetti da dramma giallo psicologico; dall’altro, poi, il riduttore insinua certi discreti tradimenti intesi a suggerire delle giustificazioni a degli atti che vogliono rimaner gratuiti, col risultato di conferire alla protagonista note patetiche che non le si addicono.
Giorgio Albertazzi ha accentrato la sua regia sul realismo tragico del copione con efficacissimi effetti di cui gli sono stati strumenti disciplinati il Battistella, la Riva, il Montemurri e le scenografie di Petrassi e Valentini. Ma che sarebbe stato tutto ciò senza l’interpretazione di Anna Proclemer, un’allucinazione sospesa in un abisso?
Carlo Terron