La Notte, 6 febbraio 1976
Che Anna Proclemer sapesse recitare superlativamente bene non era una novità per nessuno; che possedesse una bella calligrafia, agevolmente leggibile, in armonia con l’eleganza della sua acuta sensibilità e della sua ordinata intelligenza era una dote presumibile; ma che fosse anche brava in disegno lo si è scoperto solo ieri sera, quando investendo il palcoscenico dalla platea, sospintavi dal sonoro tornado wagneriano della cavalcata delle Walchirie, e prendendo violentemente possesso di un’aula scolastica, dopo essersi telegraficamente presentata, ha scritto a tutte lettere, col gessetto, sulla lavagna, l’antica parola culo; e quindi, con la maggior disinvoltura, ha disegnato, altrettanto chiaramente, quello che la metà maschile del genere umano solitamente ci porta appeso dalla parte davanti – iconografia ricorrente dall’eta dei graffiti delle caverne di Altamira a quella delle stazioni della metropolitana milanese – definendolo, con poetica immagine geografica: il Capo di Buona Speranza: nulla di più adatto a creare quel che si dice il clima della chiamiamola così commedia.
Ma, in realtà, non si tratta che di un massacrante soliloquio di un paio d’ore, che passa come un tritasassi sull’allibita platea, seminando letteralmente il terrore addosso agli incolpevoli. Lei, lassù, in cattedra, solitaria ma, ahimè, non silenziosa, come una lupa leopardiana: straripante, anzi, e feroce, verbalmente diarroica: la Maestra, con tanto di emme maiuscola; e noi ammassati, giù, gli alunni di una quinta classe elementare, maltrattati a sangue, buoni buoni, basiti, senza osar fiatare, venuti ad imparare, a suon di ingiurie, di sevizie e di violenze, le basi del vivere sedicente civile: dalla biologia all’evoluzione, dall’aritmetica alla semantica, dalla droga alla circolazione e via discorrendo; impartite da un inflessibile e minaccioso moralismo, malcelato quanto tradito da un furibondo subcosciente, ossessionato dall’erotismo malrepresso dell’invasata furia, preda d’un didattico delirio da antica Sibilla insanita, che si declama addosso rabbiosamente la propria paranoia schizofrenica, ispirata da Eugène Ionesco deus optimus maximus di ogni stralunato assurdo.
Trattasi, l’avete già capito, dell’attesissima Signorina Margherita di Roberto Athayde, “monologo tragico-comico per una donna impetuosa”, già rappresentato, la scorsa estate, al Festival di Spoleto, presentemente reduce da tre mesi di ininterrotto successo romano, ed approdato, ieri sera, a Milano, al teatro San Babila pieno come un uovo. L’autore, ancora giovanissimo – beato lui, conta appena cinque lustri – è un brasiliano disertore dalla musica al teatro, rampollo di una famiglia di poligrafi e figlio di un noto scrittore. Non è alla prima prova. Dopo un successo di scandalo, naturalmente con interdetto della censura poi, sembra, rientrato, in America Latina, la sua ossessionata ed ossessionante eroina ha fatto strada, giungendo, anche, penso, a causa della attuale scarsezza di testi a protagonista femminile, in una delle rielaborazioni radicali usuali abitualmente in Francia, alquanto riduttiva, intesa a trasformarla in un puro e semplice piacevole divertimento boulevardier ai limiti del cabaret, alla consacrazione di Parigi, interpretata da ben due mostri sacri di lassù: Annie Girardot e Madeleine Robinson, Da noi, arriva in un adattamento e una regia di Giorgio Albertazzi, non solo felici, teatralmente assai scaltri senza smodare né nell’osceno – e il pericolo, nel testo, è perennemente in agguato – talché non si capisce la tartufesca ragione d’averla proibita ai minori di diciotto anni; ma anche fedeli allo spirito originale che è meno corrivo e innocente ed innocuo, e più agghindato di sottofondi, magari maggiormente intenzionali che realizzati di quel che pare, vale a dire di una spiritosa e insolente, a tratti beffarda variazione, non priva di una qualche propria originalità, di quel piccolo ma autentico capolavoro che è La lezione del già citato Ionesco, da ognuno individuabile fin dai primi minuti, e da tutti segnalata.
E quali sarebbero codeste intuizioni più o meno occulte? Chi, che cosa rappresenta quell’insegnante strampalata e ovvia, confusa e dispotica, arrendevole e intollerante, carezzante e crudele? Chi, che cosa sono quegli allievi succubi ed atteriti, che non hanno voce in capitolo e l’unico timido, muto come un pesce, che si avventura ad avvicinarla viene steso con un colpo di karate prima di riuscire ad aprir bocca? Che significa quella impossibilità, quella proibizione di colloquio pur ipocritamente sollecitato di continuo dalla mantide religiosa?
Un’allegoria, una metafora evidentemente: il Potere in senso generico con la sua proteiforme sopraffazione in senso altrettanto generico. Il guaio è che, non so se per eccesso di sofisticazione o per sovrabbondanza di semplicismo, distratto dall’eccedenza dell’assurdo – in che, d’altra parte, consiste il divertimento del copione – se non proprio incomprensibile, ciò arriva sfocato, comunque faticoso e secondarissimo al pubblico. Concretamente, alla resa dei conti, concorrendovi, pur se non sembra, persino un grottesco spogliarello, nonché il macabro amplesso con uno scheletro fatto a pezzi dopo l’uso, di una mentecatta maniaca sessuale che, alla fine, mostra la propria insanabile solitudine ed intima disperazione rivelando, nella propria borsetta, un pugno di caramelle – simbolo dell’irrecuperabile infanzia? – ed una rivoltella, alla resa dei conti quello a cui lo spettatore assiste, senza possibilità di dubbio ed esclusivamente, è a un’iperbolica liturgia sadomasochista in chiave comica che costeggia l’umorismo nero.
Nulla di male, beninteso, non è questo, un biasimo, è semplicemente la constatazione di un proiettile deviato, che muta bersaglio durante il tragitto a dispetto della mira del cacciatore. Perché mea culpa?
A Milano, quest’anno, si va per cicli. Stiamo attraversando il momento delle grandi interpretazioni, degli exploit d’alta scuola. Prima Sarah Ferrati con La città morta, poi Romolo Valli col Malato immaginario e Tutto per bene, ed ora Anna Proclemer – e parlando di lei ci va associato il suo regista Albertazzi – con la fatica massacrante e splendida della sua Signorina Margherita, dalla quale qualsiasi attrice, anche solo fisicamente, uscirebbe spossata. Si trattasse anche soltanto di questo, ora sapremmo che possiede una salute di ferro e nervi d’acciaio. La sua interpretazione così varia, mutevole, volubile, segue la via più ardua. Avrebbe potuto impostare il personaggio tutto sulla grinta di una brutalità insultante uniforme e sarebbe stata a posto. Viceversa è uno svariare ininterrotto di luci e di ombre; dove la sincerità si appoggia al virtuosismo più fantasioso e scaltro cancellandone le tracce: un’altalena continua di finte e contro finte, mosse e contro mosse, ora esplicite ora elusive: ghigni sarcastici e dolcezze viperine, prepotenze graffianti e sdolcinate disinvolture, cupe permalosità e capricciose melense, allucinate efferatezze e squilibrato infantilismo, demoniaci invasamenti e mielate ironie; con un bellissimo cedimento di implorante pena al finale: un prodigio, che, naturalmente, supera di cento cubiti il valore del testo. Era il caso? Sì. Soltanto per assistere a questa -- occorre dirlo? acclamatissima – interpretazione, era il caso. Ogni tanto, a teatro capita.
Carlo Terron