La Notte, 10 aprile 1968
Vengono vengono! Passin passetto, uno dopo l’altro, i nostri illustri e meno illustri narratori battono alle a lungo disprezzate porte del palcoscenico. Come chi, giunto alle soglie della menopausa senza mai aver coltivato il nuoto, i più discreti tentano prudentemente l’acqua coi piedi, senza azzardarsi di oltrepassare i limiti dove “si tocca”, i più presuntuosi si gettano baldanzosamente a tuffo, sperando di rimaner a galla come i sugheri e, quando affogano, polemizzano di congiure e camarille. Avvertita la crisi del romanzo e nell’ottimistica illusione che non esista una crisi del teatro, si son fatti l’idea sbagliata che il palcoscenico sia ancora un campo vergine da arare; nella peggiore delle ipotesi, un luogo di malaffare da redimere, sordide stalle da ripulire, con relativa facilità. Uno snobismo secolare si attenua, la distanza tradizionale tra la purezza della pagina e l’impurità della ribalta si va accorciando. Diciamo subito, a chiarimento di un possibile equivoco: ad onta delle prove finora, nove volte su dieci, deludenti, e qualcuna desolante, trattasi del fenomeno più positivo delle ultime stagioni. Non è da oggi che chi parla va auspicando la fine di una deleteria frattura fra scena e letteratura, tipica del nostro paese e soltanto del nostro paese; quando, altrove, l’appuntamento del letterato e del poeta con l’attore e lo spettatore è cosa normale, anzi inevitabile, si chiamino essi Tolstoi o Gide, Goethe o Eliot. Meglio tardi che mai e speriamo nell’avvenire, senza lasciarci scoraggiare dal pugno di mosche dei primi risultati. Il teatro non è Lourdes e i suoi miracoli chiedono tempo per maturare. Chiedono anche umiltà, ma codesto è un altro discorso.
Frattanto, un’inattesa e promettente soddisfazione ci è venuta iersera al San Babila sottoscritta da Giovanni Arpino con L’uomo del bluff, deliziosamente rappresentato da Tino Buazzelli ed Evi Maltagliati. Se c’era uno che, forte della propria autorità di romanziere di primo piano, avrebbe avuto il diritto di affacciarsi al sipario con una certa superbia, costui era proprio Arpino. Viceversa, presentandosi con la signorile modestia sconosciuta alla maggior parte dei suoi colleghi, da persona consapevole di avventurarsi, per la prima volta, in un terreno accidentato e sconosciuto, è anche colui che ha fatto meglio; e, ciò che più importa, è rimasto fedele a sé stesso, al proprio mondo e ai propri modi: alla propria firma, in altre parole a cominciare dall’esemplare noticino premesso al programma.
Intanto, che Dio lo benedica, comincia con una semplice, ma, almeno secondo noi, irrinunciabile professione di fede, quanto mai opportuna nella balorda confusione di tutti gli sperimentalismi e avanguardismi schizofrenici che ci giocavano. “Credo nella parola”, – comincia col dire. “Credo che solo la parola possa chiarire chi siamo, chi cerchiano di essere, chi potremo o potremmo essere. La parola sa resistere, anche se rischia, anche se sbaglia, anche se fa male, o s’illude o brucia in sé stessa”. Al ciel piacendo, si tocca terra, si ripristina un punto fermo. Poco più in là, leggiamo: L’uomo del bluff non si aggrappa e non nasconde simboli, non denuncia, non condanna, non pretende di illuminare. Come ogni opera, dovrebbe anzitutto rappresentare soltanto se stessa”. Ecco un discorso che sarà come una stilettata per i fanatici esclusivisti dell’”impegno” del didascalismo e della “contestazione” ad oltranza.
D’accordo, le buone intenzioni non vogliono inevitabilmente dire buone commedie. Ebbene, tutto considerato, questa lo è. Sbaglierebbe di grosso chi, dalle premesse citate, si aspettasse un copione che accarezza il cosiddetto grosso pubblico dal verso del pelo per divertirlo nel modo più faicle. Anzi! Il suo divertimento di origine e fine prevalentemente verbale, nasce e si esaurisce tutto in un raffinato, narcisistico, se vogliamo, gioco dell’intelligenza. Scontata una malcelata simpatia per Beckett (Aspettando Godot) e Pinter (Il guardiano), pensate – che so? – a Giraudoux, al Ballo dei ladri di Anouilh, a Voulez-vous jouer avec moâ? di Achard, a certi favoleggiamenti umoristici di Superville. Si potrà avanzare la riserva di un copione “datato” alla stagione di quei modelli; ma, poi, nemmeno troppo: il piglio, il tono e il timbro del suo surrealismo son più asciutti, più spruzzati di un’ambiguità vagamente amara e impercettibilmente inquietante e crudele.
Divertimento piccolo e gratuito, però tutto autentico, concluso nell’originalità rigorosa del proprio linguaggio antipatetico, tenuto sul filo di un umorismo fiabesco e freddo; che detta da sé le sue regole interne, la sua logica, il suo “tempo”. La breve commedia è una metafora dedotta dal titolo preso alla lettera. L’uomo del bluff è un deraciné, una sorta di picaresco barbone filosofo, a suo modo un ribelle e un anarchico. Dopo aver fuggito una normale esistenza borghese senza estri a fianco di una moglie impossibile, ne ha infranto i ceppi, vivendo di allegri espedienti da scroccatore e baro; già in passato condivisi con una scombinata contessa amabilmente carogna che, finiti, come lui, gli sperperi della ricchezza, vive di assegni a vuoto emessi in un minuscolo e miserevole ambiente provinciale, dove egli coltiva i propri polli da spennare.
Ma viene il giorno che la rispettabilità tradita ed offesa gli si rivolta contro nelle vesti di un figlio non meno assurdo e paradossale, vindice della propria madre, il quale lo raggiunge col proposito di farlo fuori nel senso letterale del termine. Naturalmente, bluffando, una volta tanto in modo diverso, la vittima predestinata, riesce vittoriosa anche in questa occasione e riprende il suo libero vagabondaggio di simpatica canaglia, riunendosi alla stramba contessa dei suoi giovani dì che, per parte sua, non s’era fatta scrupolo di passare temporaneamente dall’altra parte, quand’egli sembrava destinato a soccombere.
Parrà impossibile: l’astrusa fumisteria della minuscola storia sta allegramente in piedi mercé un dialogo tanto più diretto quanto più sofisticato; che arriva immediatamente allo spettatore senza mancare il minimo effetto. Merito anche di un’esecuzione affascinante, calibrata da una sottile regia di Arnaldo Bagnasco con scene e costumi spiritosi di Matilde Repetto, due nomi nuovi da tener d’occhio.
Tino Buazzelli quanto più aumenta di peso tanto più bravo diventa. È aumentato di altri dieci chili ed è entusiasmante la sorniona intelligenza del suo gioco. Non avrebbe chi lo valga se non si trovasse a fianco Evi Maltagliati candidamente gaglioffa, in tonalità per lei insolite eppure da antologia. L’uno e l’altra son degnamente affiancati dal Giangrande, dal Negri, dal Paoletti e dal Campese, ottimi come ottimo è stato il successo. Peccato che la compagnia si fermi solo quattro giorni.
Carlo Terron