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La Notte, 6 ottobre 1966

Non c’è che dire, Tino Buazzelli è un uomo di parola. Anche un po’ troppo. Un simpatico fasso tutto mi. Aveva dichiarato di volerla far finita coi Teatri Stabili; e l’ha fatta finita. Aveva rivendicato il diritto dell’attore a poter dire la sua nella impostazione di un personaggio, senza la tutela opprimente del regista dittatore, e si presenta, lui medesimo, in veste di regista di sé stesso e dello spettacolo. S’era lamentato di essere stato confinato nei ruoli comici con limitazione e pregiudizio delle sue capacità e delle sue predilezioni di attore serio, anzi tragico; e, dopo un Edipo a Colono in agosto, si presenta addirittura come Macbeth in ottobre; addossandosi, per giunta, il rischio e la fatica di far da battistrada all’avviamento del nuovo teatro San Babila, ideale per la prosa ma ultimo arrivato sul mercato.

Se devono piovere classici che, almeno, siano classici sul serio! Ah, che respiro, gente, dopo gli Aristofane, i Brecht, i Bibbiena, tornar a potersi sedere al tavolo di Shakespeare! Al cui proposito è malinconico ma anche divertente ricordare come, di buona parte di un famoso saggio di psicopatologia che ha per titolo La coppia criminale e che, uscito dalla cerchia degli allievi di Cesare Lombroso, studia, per la prima volta, il meccanismo e la dinamica psicologica della associazione di marito e moglie nell’attività delittuosa, siano Macbeth e la sua signora a far le spese. Indagato il copione come si indagherebbe una cartella clinica, estraendone cioè tutti i possibili “sintomi”, si scoprì che Shakespeare aveva descritto, con sorprendente precisione, il raptus epilettico, la furia omicida, la violenza sanguinaria, l’insensibilità dolorifica, la crisi convulsiva con perdita della coscienza, il sonnambulismo, l’allucinazione terrifica e altro ancora: un quadro rigorosamente coerente e conseguente, che avrebbe potuto entrare dritto in un trattato di psichiatria. Mezzo secolo di estetica crociana, ormai, ci ha abituati a spazzar via dalla valutazione critica tutto quanto risulti estraneo all’ autonomia dell’intuizione fantastica onde l’opera d’arte esaurisce ogni principio e ogni fine. Eppure, attraente sarebbe la tentazione di filtrare la tragedia alla luce delle rivoluzionarie aperture e degli abissali scandagli che le concezioni di Freud offrono all’ indagine dei più segreti e misteriosi moventi dell’attività dell’uomo. 

Ma quand’anche avessimo puntato il nostro interesse sulle chiavi psicanalitiche di questo notturno, demoniaco e rapinoso poema di massacro e di rovina? Quando dalla mancanza di figli dei due protagonisti sulla quale insiste ripetutamente il testo, dalla maledizione della sterilità, avessimo dedotto i più sconcertanti e terribili complessi che cosa dovremmo concludere? Che la loro spietata e ossessiva attività omicida, intesa ad abbattere re, principi, infanti, amici, complici, per colmare, con un mare di sangue, il solco che li separa dal trono agognato, ad essi preannunciato dal vaticinio delle streghe, altro non sarebbe che questa o quella nevrosi? Avremmo, forse, compiuto un tentativo di più per aggirare, tramite un insolito sentiero, la montagna della poesia, ma senza poterne raggiungere la cima, inaccessibile come è inaccessibile ogni mistero. L’unico partito, di fronte a certe opere racchiudenti un segreto inconoscibile, resta ancora l’umiltà. Inchinarsi e non domandare di più, come di fronte alla rivelazione religiosa o, se volete, ai prodigi della magia nera.

Ogni definizione, perciò, è vera e falsa ad un tempo; e sarà sempre incompleta. Il solo errore dal quale mi sembra ci si debba guardare sarebbe di concepire queste due ossesse a spaventose creature, perturbatrici di un superiore equilibrio, cavalcanti verso la rovina, sospinte dall’imperativo dell’azione, su una strada seminata di cadaveri, alla stregua di pure, semplici, radicali e totali incarnazioni del male, come qualche critico illustre ha mostrato di credere. Sarebbe un limitare assai le loro dimensioni e le loro disponibilità umane. Macbeth e Lady Macbeth non sono indentificabili, per esempio, con Jago tutto concluso e impermeabile nella sua programmatica malvagità priva di fessure. La loro inquietante grandezza sta nel possedere sempre, in ogni atto e in ogni momento, una residua visione del bene, la coscienza di infrangere le sue leggi e la persuasione della propria empietà. Le terrifiche allucinazioni e la disperata ricerca della morte, nel primo, e l’ossessione dell’odore del sangue che tutti i balsami dell’oriente non potranno cancellare, nella seconda, stanno a testimoniarlo.

La vera maledizione che li sospinge e li perde – specialmente lui – consiste nella impossibilità di essere completamente malvagi avendo accettato di non essere completamente buoni. In un caso, come nell’altro, sarebbe stata la pace di dentro. Si potrebbe dire che, di tutta la catastrofe delle loro anime, sia responsabile proprio quel brandello di bene, di verità morale, di umana solidarietà che non sono riusciti a soffocare e sotto il quale, e per il quale, soccomberanno. Dietro a loro sta l’angoscia del paradiso perduto.

Essi, insomma, sono incapaci tanto di raggiungere la insensibilità della coscienza quanto di riparare nel pentimento. Da qui, il dramma enorme e tremendo che conclude la vita del regicida dopo che il suicidio di Lady Macbeth l’ha sospinto a dibattersi ed a urlare in una disperata solitudine, vuoto senza echi. Nessuna salvezza. E un’unica soluzione – forse! -: il rimorso. Cupo, funereo, solenne esso batte i suoi rintocchi spietati fin dal principio, lungo il buio e nero paesaggio della tragedia. Vogliamo dire: dramma del rimorso? Non è una novità. E non è neppure tutto il segreto dell’opera. Ma ci consente, se non altro, di guardarla in faccia.

Il teatro San Babila non poteva iniziare meglio la sua stagione. E’ stata una piena vittoria, consacrata da un caldo e persuaso successo: del regista, dell’interprete e, d’intesa, a pari importanza, dello scenografo e del costumista. Il che vale a dire, innanzitutto, una rigorosa unità dello spettacolo; rara specialmente considerando la provocante originalità che lo impronta, senza un cedimento e senza un vuoto, dal principio alla fine; ad onta dell’economia di tempo e di danaro, solo la seconda, qua e là, sensibile per qualche acerbità delle parti minori. Ed è un ulteriore merito di Buazzelli regista aver fuso anch’esse in un insieme di concisa sobrietà e di castigata intensità, nella nitida purezza di una concentrata e stilizzata tragicità, tanto più tesa quanto meno alza la voce; tale e quale la sua superba interpretazione del protagonista, così acuta e criticamente controllata, sorpresa inattesa in un attore il cui pregio, e difetto insieme, sembrava consistere in un’esorbitante esuberanza. Ma non è stata la sola sorpresa. Chi avrebbe creduto, ad esempio, a una Lady Macbeth della giovane Paola Mannoni? Quella sua gelida e indomita volontà, quelle sue tonalità di vetro!

Lo choc maggiore, poi, è consistito nella scenografia mobile, viva si direbbe, attiva partecipe e stimolo allo spettacolo. La si deve a Josef Svoboda, direttore tecnico del Teatro nazionale di Praga. Essa deriva evidentemente da Adolphe Appia, con l’aggiunta, a vero dire un po’ insistita, di proiezioni capaci di inquietanti prodigi di atmosfera. Quasi emanazione di essa, i costumi senza tempo, vari nella loro monocroma uniformità di Eugenio Guglielminetti, fra i più intensi che abbia disegnato.

Considerate come emanazione della coscienza del protagonista, allo spettacolo mancano le streghe e tutte le apparizioni. Criterio discutibile certamente; quel che non è discutibile è la allucinante suggestione onde vengono sostituite con gli effetti di luce e con le musiche elettroniche di Gaslini. Interminabili applausi a tutti e, specialmente meritati, al sereno Lazzarini, all’austero Marcucci, all’energico e bravo Bertorelli, al Paoletti, al Biavati, alla Bellia, al Di Donato e al piccolo Ferrante agnello sacrificato sull’altare della volontà di potenza tirannica.

Carlo Terron

Ultima modifica il Domenica, 14 Dicembre 2014 10:37
La Redazione

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