Corriere Lombardo, 16 gennaio 1957
Cosa vuol dire la verità delle dimensioni ideali, al confronto delle meschine misure del tempo e dello spazio! Nei suoi appuntamenti fatali, la coscienza dell’uomo incontra attimi che si incidono a fuoco nell’animo e durano eterni; mentre può attraversare anni e anni che le scivolano sopra come un velo d’acqua, e trapassano la memoria senza lasciarvi traccia alcuna. Facciamo un esempio. Copione alla mano, scommessa che non vi siete mai accorti, assistendo all’Otello, che, fra l’arrivo del moro a Cipro e l’assassinio di Desdemona, non passa che un giorno e mezzo: trentasei ore, minuto più minuto meno? E non è a dire che dei fatti, anzi, dei fattacci non ne accadono; o quali tempeste si scatenano nei cuori e di quali trapassi psicologici essi sono la scena, e in quale causa, sottile, diabolica, ragionata e lenta trama di insinuanti perfidie essi vengono avvolti.
Dalla luminosa mattina dell’arrivo alla rocca veneziana, alla tetra notte del delitto nella camera da letto, vedete le cose che dovrebbero avvenire: la candida e pura Desdemona trasformarsi in una maliziosa baccante divorata dalla lussuria, il leale alfiere Cassio divenire il più spergiuro e spregevole degli aiutanti maggiori del generale nero fino a cornificarlo abbondantemente con la sua signora; e vi risparmio tutti i passaggi da una mano all’altra del famigerato fazzoletto: perduto da Desdemona, trovato da Emilia, trafugato da Jago, nascosto nella casa di Bianca, posto fra le mani di Cassio sotto il naso del furente moro; e poi, duelli, zuffe, l’arrivo degli ambasciatori veneziani; la fiducia trasformata in sospetto, l’amore arroventato in furore, non escluso, fra una cosa e l’altra, un accesso epilettico del protagonista.
Viene il dubbio che per pensare, in così breve tempo, di riuscire a far credere ciò che fa accadere, non un mostro di intelligenza malvagia, sia l’onesto Jago, bensì uno scriteriato che si mette nella condizione di venire smascherato dopo dieci minuti.
E se si evita Scilla, ecco che si naufraga in Cariddi; ché potendo salvare il genio di Jago non si può fare a meno di far piazza pulita del senno, della prudenza e del buon senso di Otello, tanto decantati dal Senato veneto che gli mette in mano la sicurezza della Repubblica sui mori. Anche tenendo conto che si tratta di un militare, via, egli esagera. Se fa le guerre e la politica come conduce le sue faccende private c’è da tremare per Venezia.
E che dire dell’ottusità di Desdemona? E’ vero che, quando una donna si mette a non capir niente, tutto può accadere; ma non accorgersi della gelosia, non chiedere una spiegazione di fronte agli inopinati maltrattamenti e alle violente scenate non prive di vie di fatto del marito, e insistere per giunta a raccomandargli Cassio ad ogni occasione, è a dir poco inverosimile. E mica che non fosse una donna coraggiosa con la testa sul collo da non sapere ciò che voleva. Lo aveva dimostrato scegliendo il nero, sposandolo e seguendolo all’estero contro la volontà del padre e fra lo scandalo del suo ambiente dalla pelle bianca.
Non si pretende una vita, ma almeno qualche mese onde maturare tanta copia di sentimenti e di fatti, e dall’idilliaco punto di partenza giungere al tragico traguardo, vorrete concederceli. E allora? Assurdità? Incoerenza? Peggio per la verisimiglianza e peggio per la coerenza. E’ tanto agevole alla grande poesia compiere il miracolo, che il drammaturgo nemmeno si accorge delle proprie incongruenze. Egli trascura di porvi il facile rimedio a portata di mano correggendo i tempi nel copione; e così, senza volerlo e senza saperlo, rende omaggio ai pedanti rispettando almeno l’aristotelica unità di tempo. Basta che i personaggi aprano bocca e, battuta per battuta, tutto risulta prodigiosamente vero e spaventosamente necessario; perfino l’esorbitante importanza del mal accetto fazzoletto, appena gli si riconosca la funzione superstiziosamente magica ed arcana che il protagonista gli attribuisce. Da un punto di vista prettamente drammatico, per non dire melodrammatico, è addirittura tutto opinosamente più vero, necessario e credibile che nelle altre grandi tragedie; anche se, forse, Otello non innalza e non inabissa lo spettatore nelle vertigini del pensiero di Amleto, Macbeth e Re Lear. Tragedia della gelosia, oppure della fiducia tradita e della lealtà offesa, sgomento e reazione di un magnanimo cuore, davanti alla scoperta del male, per quanto riguarda la coscienza di Otello? Pratica e interessata malvagità predisposta a vendetta di presunti torti subiti per fatto personale, oppure espressione di un disumano, addirittura trascendente atteggiamento di intelletto lucido e indifferente al servizio del male per il male, concepito come idea pura e gratuita, in forma idealistica, starei per dire, da parte di Jago?
Vecchia questione in parte riproposta anche ieri sera al Lirico nell’applauditissimo spettacolo di Vittorio Gassman e Salvo Randone. Per Benedetto Croce, Otello è soltanto la gelosia dell’uomo accecato dalla passione, e Jago è la malvagità allo stato puro. Modestia permettendolo, mi pare che la questione, posta così, in termini perentoriamente opposti non corrisponda alla realtà del testo. I due personaggi sono singolarmente più complessi, ricchi, vari, ambigui e umanamente contraddittori della stilizzazione inevitabilmente intellettualistica a cui li vorrebbe limitare l’una o l’altra delle interpretazioni sopra accennate.
In Otello c’è, sì, l’uomo istintivo, il meridionale primitivo, appassionato, credulo, impulsivo, violento, sensuale, che scarica tutto sé stesso nella gelosia; e, di conseguenza, come ha acutamente notato il Bacchelli, alla fine della sua giornata terrena più che placarsi, col suicidio, in una catarsi tragica, mette fine a un’angoscia. Ma esso si equilibra con l’uomo sociale e politico universalizzandosi e acquistando grandezza e malinconia dentro alle prospettive e agli spessori di una superiore e nobile coscienza, educata dalla ragione, dal senso della responsabilità, del dovere, della consapevolezza dell’onore e della dignità morale. A sua volta, Jago finisce, è vero, con l’attingere a una imperturbabile e impenetrabile misteriosità da disinteressato e spaventoso arcangelo che si esalta specchiandosi narcisisticamente nel male gratuito, ma vi giunge essendo partito da motivi privati ben precisi e limitati: il sospetto che Otello l’abbia sostituito nel suo letto con Emilia, il rovello per una promozione mancata, l’ambizione frustrata e l’invidia contro chi gli sta sopra.
Giulio Coltellacci aiutando, con scene e costumi di pittoresco rilievo, Vittorio Gassamn ha intonato lo spettacolo a una chiara, mossa, realistica e ordinata sostenutezza. Senza trascurare ma contenendo e disciplinando un po’ accademicamente, a vero dire, i rapinosi trasporti della selvaggia gelosia e della ruggente passione, egli ha posto ogni cura nel valorizzare e accentuare l’elemento nobile, cavalleresco e civile del carattere di Otello, portando in primo piano lo sgomento di una magnanima coscienza morale; nella quale lo Jago di Salvo Randone, incunea dubbio, disgusto, ribellione ed orrore, con lucida minuziosa, duttile, sottile sapienza psicologica. Alla innocenza un po’ monocorde di Desdemona Anna Maria Ferrero ha dato una femminile e umana vibrazione ricca di dignità e aliena dai languori tradizionali.
Nel complesso dell’applaudito spettacolo c’è qualche inevitabile scarto di stile, ma quasi tutti i personaggi principali sono stati interpretati con intelligenza e rilievo. Il Feliciani, la Aldini, il Michelotti, il Bosic, il Ruggieri, l’Alzelmo, la Andreini, il Barbarito si sono fatti onore, favoriti dalla agevole, netta, nervosa e trasparente traduzione che della tragedia ha compiuto Salvatore Quasimodo.
Carlo Terron