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Corriere Lombardo, 18 novembre 1949

Ci risiamo, creature. Non è ancora dileguato del tutto il puzzo di bruciaticcio del cortile della Cancelleria di Berlino e sulle ali di un pacchiano copione finto ingenuo, e con la scusa della imparzialità, della obbiettività, dei doveri della storia e dei diritti dell’arte, rifanno capolino la volontà di potenza, la mistica nazionalsocialista e l’uomo della provvidenza. Come primo esempio di letteratura teatrale giuntoci dalla Germania del dopoguerra, non c’è male. E non c’è male nemmeno come esempio di buon gusto, di opportunità o di discrezione dei nostri teatranti che hanno importato, tradotto, recitato e ospitato un simile zibaldone.

Con minime modificazioni o qualche taglietto – meno di quanto il governo democristiano esige per un innocente copione di riviste – questa “impressione storica” avrebbe potuto benissimo essere rappresentata davanti  a un’adunata della Hitlerjugend. Nessuno nega al signor Max Shrader, non meglio identificato, il diritto di affrettarsi a portare in scena Adolfo Hitler, sia pure rasandogli i baffetti e, magari con la marachella di un pizzicotto al cerchio e una martellata al barile, di farne sottobanco l’apologia. Ognuno la pensa come crede e come può. Ci basta, ed è più che sufficiente, contestargli di avere scritto una brutta commedia e rimproverargli che, per causa sua, una volta di più, ci debbanno cascar le braccia davanti alla stima che, nonostante tutto, continuiamo a nutrire verso i suoi connazionali. Che effetto farebbe il nostro paese e che cosa ci sentiremmo dire, domando io, se dovessimo mandare su un palcoscenico di Parigi, di Londra, di New York, di Berlino stessa tre atti del tono, delle levature e delle intenzioni di questi, dedicandoli a Quello di casa nostra il quale, oltretutto, dal confronto col suo socio tedesco, esce come un candido agnello raffrontato al più nero dei lupi e come il più assennato buonuomo alle prese con un pazzo furioso?

Lo spettacolo, occorre dirlo?,  si intitola La sua battaglia: “Mein Kampf”, sicuro, e mescola il simbilismo a fumetti con la cronaca spicciola e il grandguignolismo ideologico. Tre atti, tre sottotitoli. L’Ascesa, L’Apogeo, Il Declino.

Comincia che si vede il “piccolo caporale” al fronte affetto da poliuria e che rifiuta la maschera antigas; e prosegue con la liberazione da tutte le debolezze umane che tarpano le ali alla grandezza eroica, culminando in un quadro ambientato nella “contrada delle meditazioni” dove Adolfo fa i suoi esercizi spirituali e con sfuriate profetiche, in un linguaggio allo Zarathustra spiegato al popolo e ad uso di aspiranti S.S., sconfigge ed abbatte alcune tremebonde fanciulle vestite di camicioni bianchi, e che simboleggiano la Bontà, la Saggezza, la Pietà e la Coscienza, innalzandosi alle rarefatte sfere della suprema potenza, al di là del bene e del male.

D’ora in poi egli non siede che su un alto trono e dà le direttive a Goebbels, a Goering, a Himmler e seguaci fin troppo evidenti sotto le spoglie dei rispettivi personaggi di copertura. Essi si inchinano, dicono sempre di sì e giungono ad avere il tupè di chiamarlo “macigno storico”. Il macigno storico schiaccia i dissidenti e polverizza  gli ebrei; e qui, ogni tanto, bontà sua, l’autore trova che esagera e fanatizza un po’ e che ha un temperamento autoritario ma tutto per amore di potenza e grandezza di patria s’intende; e, infatti, non si fa parola dei campi di concentramento ma, in compenso, si sfotte l’Inghilterra e si mostrano le grandi opere architettoniche decretate dal regime.

Il Declino avviene nel bunker e narra ciò che tutti sanno. Il Prometeo spezzato e delirante, tradito e sconfitto e la sua morte: “Non avete saputo mantenervi alla mia incandescente altezza” declama, ed ecco il risultato. Fa fucilare alcuni presenti, tanto per non perdere le buone abitudini, sposa Eva Braun e va a farsi arrostire.

Parrà impossibile, ed è naturalissimo, come vent’anni di storia, e quale storia, stipati nei quadri della commedia non riescano a spremere un paio di fatti veramente drammatici o un solo conflitto di idee capaci di tener in piedi il copione che si riduce a una serie ininterrotta di verbose convulsionarie e trucibalde concioni, dove parla soltanto colui che ha sempre ragione e, appena uno alza la mano per fare un’obiezione, gli viene tolta la parola, quando non viene fatto fuori. Ma siccome è vero ciò che è stato detto e che cioè non c’è opera, per quanto brutta sia, la quale non contenga almeno una pagina interessante, così c’è anche qui un breve quadro di ebrei rifugiati in un cimitero, non priva di una sua suggestione trucemente patetica. Ed è stato il solo punto dove si sieno sentiti degli applausi veramente meritati e convinti. Per il resto se qualche censura o qualche reprimendo si fa sentire questa tocca uniamente ai seguaci del “grande capo”. Egli personalmente non è sfiorato da una incertezza, da uno smarrimento, da un dubbio né da un’ombra di pentimento. Nibelungico eroe fino in fondo.

A questo proposito perché non esistano dubbi sulle vere intenzioni che sono sotto al gioco dei bussolotti di questa sedicente “interpretazione storica” mal coperta da uno sbrindellato mantello di obbiettività pieno di buchi e di scuciture fin troppo rivelatrici, voglio riportarvi alla lettera uno stralcio tratto dal copione avuto graziosamente in lettura. E’ il finale della commedia. Adolfo si è già fatto nibelungicamente arrostire col petrolio e l’ombra sua, ch’era dipartita, torna nel bunker e fa la seguente intemerata a un sergente americano presente per ragioni turistiche: “Tu tornerai alla tua San Francisco e parlerai di me… I tuoi commilitoni e i tuoi concittadini parlarono e parleranno di me… Non importa se tu contamini le mie cose terrene (il sergente s’era seduto sul suo sofà. N.d.r.). Io sono morto in piena serenità, al di là di ogni bene e di ogni male, e il mio spirito non soffre pentimenti. Fui il più feroce, il più crudele, il più sanguinario, solo per essere il più forte, a capo di una Patria più potente di tutte le altre Patrie. E finché le Patrie esisteranno e devono (?) combattersi è inevitabile che sia così”. Non so se mi spiego! Ci risiamo, niente da fare.

Al buon esito, picchiettato da qualche dissenso, della serata dell’Odeon, hanno contribuito una solida, varia e immaginosa regia di Daniele D’Anza e l’interpretazione tesa, perentoria e declamante di Nino Besozzi. Gli altri: il Verdiani, il Pierantoni, l’Allegranza, il Varisco, le signore Sammarco, Marchiò, Centa, Orlova, Guerra e Sorlisi ce l’hanno messa tutta per cercare di conferire qualche coerenza e concretezza ai grossi fantocci che avevano per le mani. Tra gli altri va considerato anche Beethoven del quale la Quinta sinfonia è stata avvilita al rango di condire il pasticcio. Ma per una pietanza del genere il più adatto, anzi l’unico adatto, sarebbe stato Wagner protonazista onorario.

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 19 Dicembre 2014 14:15
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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