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La Notte, 3 marzo 1968

Gli amanti dei classici, insaziabile gneia, possono segnare un altro punto a proprio vantaggio. Che sì che si profila all'orizzonte l'operazione Plauto, coi osuoi due millenni sulla groppa e si sentono tutti? Fino a qualche anno addietro, ci si accontentava di tirarlo fuori all'estate, fra il pietrame del Foro romano, rudere tra i ruderi. Tre stagioni fa venne Pier Paolo Pasolini a imporci Il soldato millantatore con l'autorità di una sua traduzione nel gergo delle borgate; e quest'anno circolano già due suoi copioni, uno con lo Stabile di Bolzano e quest'altro con il Centro di divulgazione teatro di prosa, pertinacemente accampato al Parco con la sua trovata dell'abbonamento alle rappresentazioni a rate. E così, ieri sera, siamo stati convocati al Teatro dell'Arte a goderci – si fa per dire – l'Asinaria, ribattezzata per l'occasione La commedia degli asini. Chi ci libererà dai greci e dai romani? Però, che mondo balordo! Da una parte, tutto proiettato verso l'avvenire; dall'altro sempre prono in adorazione di qualsiasi voce del passato, anche quando, diciamocelo in un orecchio, non ha più niente ma proprio niente da dirci. Ma le grandi firme son pur sempre grandi firme e pazienza; peste colga chi si azzarda a sottrarsi alla loro intimidazione come la chiamava Brecht.

Pazienza, ricordi liceali, a noi! Ho ancora davanti agli occhi, come una fotografia, il mio antico quaderno di scolaro, seminato di croci rosse e blu peggio d'un cimitero. Il nostro professore di latino, che Dio lo riposi, ce la fece tradurre tutta intera, parola per parola, questa benedetta Asinaria. Si seppe solo più tardi che era un sadico. Un giorno mandò a chiamare il mio povero padre. "L'avverto senza farmi illusioni, perché provveda in tempo – gli disse – di Plauto, suo figlio non sa tradurre giusti altro che i doppisensi e le oscenità. In quelli è bravissimo, li trova perfino dove non ci sono. Stia ben attento: quello lì finirà male". Come profeta non si sbagliava, non fosse altro perché stamattina sono qui a constatare che i due traduttori e riduttori della commedia: Marco Mariani e Mario Siveri sotto molti aspetti discutibili e sciolti nel trasferire in prosa italiana i versi del venerando farsone, si son poi dati prudentemente da fare ad attenuare alquanto la salacità trivialmente plebea che, nell'originale, si porta dietro i tre quarti di tutto il suo sapore.

Le commedie di Plauto hanno questo di buono: conosciutane una, si conoscono tutte. Ispirate al volgare realismo della cosiddetta "commedia attica nuova", perduti gli originali greci nei quali metteva le mani plagiando in lungo e in largo a tutto spiano, passa in seconda linea se e come inventava in proprio e quanto e fino a che punto traduceva; tanto già quello che conta e rimane è il suo personale linguaggio. Un latino favolosamente vigoroso, una continua invenzione verbale, sintattica e ritmica che modula, varia ed esalta un dialogo di icastica platealità, inarrivabilmente articolata. Ma, per gustarlo, bisognerebbe poterlo recitare in latino com'è scritto, e chi lo capirebbe? Nella traduzione, quale che sia, resta poco più che la squallida insulsaggine delle sue puerili monotone trame. È vero che, quando se ne impossessa Molière, l'Aulularia diventa L'avaro, ma è altrettanto vero che non tutti i giorni c'è un Molière di rinforzo a dare una mano.

Da qualsiasi parte si piglino, vanno e vengono sempre i soliti vecchi insatiriti, i soliti mariti tiranneggiati da terribili mogli virago, i soliti figli scapoli, impecuniosi e lussuriosi, rivali dei padri; le solite cortigiane di buono e cattivo cuore, le solite mezzane avide, i soliti sosia, gemelli e no, i soliti parassiti famelici; soprattutto i soliti schiavi trappoloni che del loro stato di servaggio si fanno un'arma per menar per il naso i padroni; e, vediamoci pure, con un po' di buona volontà, una forma di difesa, una rivalsa degli inferiori sui superiori; crepi l'avarizia, considerato che, oggi, deve entrare in tutte le pietanze come il prezzemolo, diciamo una mezza denuncia proletaria della corruzione delle classi dominanti, volonterosa bugia naturalmente tanto per far contenti i nostri colleghi progressisti che ne sono persuasi. No, non si può proprio dire che Plauto si faccia venir il malditesta nel combinare variamente i suoi grezzi materiali tagliati coll'accetta: grossi fantocci in grasse vicende, l'una vale l'altra. Su ciò, siamo dell'opinione di Orazio. Chi ce la fa fare di mentire più del necessario? In questo senso, l'Asinaria, che appartiene alla produzione più remota del commediografo e deriva da un copione di Demofilo, forse ne è una pedissequa traduzione, vale, semmai, qualcosa meno delle altre. A darle il titolo è una truffa ordita dai servi di padre e figlio furiosamente presi dalla stessa prostituta, contro un mercante, al quale erano stati venduti, da altri, dei somari. Egli viene a saldare il conto ed essi si fanno passare per i creditori. Consegnati ai loro balordi padroni i soldi della truffa, costoro mettono su un'orgetta con le pensionate del casino lì accanto, interrotti, sul più bello, dalla loro rispettiva moglie e madre e, per poco tutto non finisce a bastonate.

Il meglio del copione, piuttosto scombinato e sproporzionato, con parti esorbitanti e divagazioni non pertinenti: zeppe di riempimento e basta, sta nella canagliesca, veemente vitalità plebea dei due servi buffoni che, da soli, se ne portano via una buona metà. È anche la parte più riuscita dello spettacolo per l'impudente impetuosità che vi mettono Giulio Platone e Marco Mariani, il quale, non pago di figurare come traduttore e interprete, è anche il regista della risibile rappresentazione; alla quale Nino Besozzi porta un rincitrullito umorismo da vecchiardo libidinoso, tenuto a stecchetto da una tremenda Isabella Riva. Sono stati tutti applauditi in compagnia del lepido Pierantoni e dei volonterosi Attilio Corsini, Gianni Conversano, Franco Fiorini; Franca Mantelli, Rita di Lernia, queste due con l'errore di prendersi troppo sentimentalmente sul serio; e tre fior di ragazze che hanno poche parole, però, in compenso, ancor meno vestiti; ma è comprensibile col mestiere che fanno. La merce va esposta in vetrina, questo lo sapevano anche i romani del duecento avanti Cristo. Il problema è, piuttosto, come riuscissero a cavarsela, visto e considerato che le parti femminili venivano affidate a robusti giovanotti.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 07:57
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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