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Corriere Lombardo, 6 maggio 1961

E dài! un altro racconto che diventa commedia. Quest’anno evidentemente gira così. A giudicare dalle ultime stagioni, si dovrebbe dire che, ormai, il teatro vive di tutto fuorché di teatro. E tuttavia, per Il carteggio Aspern, caldamente applaudito ieri sera al Manzoni, si deve fare un’eccezione. Quello di Henry James (1843-1926) assiduamente preso di mira da sceneggiatori riduttori dialogatori teatrali e cinematografici d’ogni estrazione e sempre con fortuna è un caso particolare; il caso di un commediografo a successo per interposta persona, cresciuto sul tronco di un narratore che più tempo passa e più importante diventa per la somma delle esperienze assimilate come americano di nascita e superate come europeo d’elezione, per la vibratile sensibilità e sottigliezza psicologica fitta di inquietanti anticipi freudiani trapunti su una tela tessuta col filo della memoria proustiana; per la sorprendente duttilità e modernità di uno strumento espressivo capace di intuizioni non ancora esaurite dall’esperienza contemporanea.

Maestro del romanzo e del racconto – frequentemente a chiave – , uno dei pochissimi che siano stati capaci, sul crinale dei due secoli, di trasferire l’eredità ottocentesca nelle varie e complesse diramazioni della disponibilità del Novecento – prese, si può dire, il romanzo dalle mani di Balzac e lo consegnò in quelle di Proust – i suoi diretti rapporti con la scena furono altrettante sconfitte. Sempre respinto dal palcoscenico nonostante i suoi reiterati tentativi di conquistarlo con una decina e più di drammi e commedie e una non occasionale attività di recensore teatrale, il successo doveva venirgli, anche qui, più di tre lustri dopo la morte con una riduzione fatta da altri, di uno dei suoi racconti: L’ereditiera, per chi se ne fosse dimenticato. E altri ne seguirono, non ultimo l’allucinante Giro di vite. Ora è toccato al Carteggio Aspern; riduttore, per l’occasione, Michael Redgrave.

Pare che l’omonimo racconto originario sia stato ispirato da un fatto analogo precedentemente accaduto a Firenze, dove visse i suoi ultimi anni la cognata di Shelley e un critico e biografo americano la avvicinò e si fece suo pensionante col proposito di raccogliere notizie di prima mano e consultare scritti privati, autografi del poeta. Siamo in una Venezia fine di secolo col fascino decadente delle cose un po’ sfatte che si riverberano su una stagione autunnale delle anime. In una vecchia casa cadente, dalle numerose stanze chiuse e uno squallido giardino sulle acque morte di un canale, vivono in povertà, volontariamente chiuse in misteriosa solitudine, la quasi centenaria signorina Giulia Bordereau e sua nipote zitella, Tina. La prima, bloccata nel mito di uno splendido tempo remoto fantasticamente ricreato dalla memoria; la seconda, chiusa nelle pavide inibizioni e nelle rinunciatarie attese di una vita non vissuta. Un americano, Henry Jarvis, fanatico di un immaginario poeta morto, Aspers, alla cui esegesi ha votato la propria esistenza, ha saputo che la vecchia, da giovinetta, fu un grande amore del suo idolo; colei che, col solo passaggio nella di lui vita, deviò il corso di una poesia volgendola verso sublimi manifestazioni di passione. Egli è certo che la vegliarda custodisce un epistolario amoroso di incalcolabile valore per la biografia che sta scrivendo; e riesce a farsi affittare una stanza della casa, deciso a tutto, anche a qualche ignobile inganno pur di impossessarsi del carteggio.

Ciò che fa indimenticabile il racconto e che, ad onor del vero, viene sufficientemente conservato anche nei tre atti della riduzione, è l’inquieto ed inquietante rapporto, la partita di finte mosse, di aggiranti assedi, di ritegni e di audacie, che si istituisce fra l’uomo e le due donne. Lo scontrarsi di lui, tortuoso, ambiguo, ipocritamente sfuggente, con l’aristocratica insolenza e la interessata esosità della vecchia scaltrissima, affascinante ed odiosa, decisa a portare nella tomba il proprio segreto; e con la virginea timidezza devastata da tardivi desideri e curiosità indefinite dalla nipote. Egli capisce che il punto di minor resistenza è quell’innocenza tormentata da rossori colpevoli. Le fa la corte, finge di esserne innamorato, ed è quasi sul punto di renderla sua complice, quando la vecchia, in seguito ad una scenata di sdegno avendo smascherato le sue intenzioni, muore.

Ora le carte son lì, potrebbero essere a portata di mano. So che la zia, dice la giovane, le voleva bruciare; però se si trattasse di “uno della famiglia” la volontà della morta potrebbe venir aggirata e il suo sdegno tacitato. Mai proposta di matrimonio è stata espressa con maggior pudore e sfacciataggine insieme scaturendo dai réfoulements dell’animo e dei sensi di una zitella dagli istinti repressi. Ma l’uomo non ha l’animo di pagare quanto brama a quel prezzo. Se ne va a mani vuote, mentre lei, una dopo l’altra, getta nel fuoco le agognate lettere e il loro mistero.

Nel suo solido andamento tradizionale – il riduttore è un noto attore inglese – la commedia restituisce con teatrale efficacia, non scevra di mistero, un clima non così sottile ed arcano come nel romanzo ma sufficientemente teso, suscitato dalle sotterranee attrazioni e repulsioni di tre psicologie indagate nei loro labirinti, disseminati di insidie e trabocchetti.

Ad interpretare la vecchia, la compagnia ha chiamato Emma Gramatica. L’applauso commosso e commovente che l’accolse al suo entrare in scena, se in origine era inteso unicamente a presentare le armi a una veneranda e fulgida gloria delle nostre scene, in seguito assunse il significato dello stupore e della ammirazione per un’arte che, svariando dalla sincerità all’ipocrisia, dalla fragilità alla durezza, dalla cortesia all’imperio, dal languore alla vigoria, dalla gentilezza al sarcasmo, mostra di non aver trovato ancora rivali che la possono eguagliare.  Che fuoco prodigioso arde tuttora in quella canuta e minuta creatura, in quell’adorabile e terribile vegliarda! Pensate, sulla breccia da più di ottant’anni; quando aprì bocca per la prima volta su un palcoscenico ne aveva sei.

La regia ipersensibile di Giorgio De Lullo, puntualmente riflessa nella decadente suggestione scenografica realizzata da Pier Luigi Pizzi, ha immerso lo spettacolo nella gelida malinconia, starei per dire nel pianto asciutto di un clima di inerte angoscia senza tempo, dal fondo della quale Rossella Falk ha fatto risalire il chiuso dramma della protagonista, con dolente, capillare sensibilità, gravata da non so che alone di stanchezza, un presagio di delusione e rinuncia. Al centripeto approfondimento della sua interpretazione ha risposto la centrifuga costruzione di Romolo Valli, la progressiva rivelazione, non priva di una punta di crudeltà graduata sui controlli dell’intelligenza, del deserto interiore celato sotto l’entusiasmo del letterato. Elsa Albani, Italia Marchesini e Gino Pernice ebbero poco da fare ma lo fecero benissimo portando ciascuno la propria pietruzza al caldo ed unanime successo.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 16 Dicembre 2014 11:18
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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