Radiocorriere, 4 marzo 1962
Crudele giustizia del tempo. Non sono passati trentatré anni dalla morte di Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) ed ecco che, di lui, niente ci sollecita a un recupero che possa contare sul benché minimo aggancio con la nostra attualità. Non il poeta squisitissimo nella mirabile stagione dell’aedo adolescente che cantava – fu detto – “su una tibia d’argento”, non il letteratissimo rifacitore di Misteri Sacri medioevali – anche il suo famoso Jedermann, ultimo rifugio alla sua fama, chi lo oserebbe riproporre ancora alle platee, dacché cessò di essere pretesto alle mirabolanti regie di Max Reinhardt? – non il sofisticato rielaboratore di miti greci inquietati dai turbamenti delle prime scoperte freudiane – Elettra, Edipo, Arianna a Nasso vivono, per quel che vivono ancora, come sostegni librettistici alla sontuosa tavolozza musicale di Riccardo Strauss – non il lieve pittore di quella sorta di pastelli scenici che sono le sue commedie, grazia d’arabeschi senza sangue. Ricreare imitando fu la sua programmatica originalità. Essere poeta, per lui, volle dire essere letterato, più letterato che fosse possibile. Sensibilità, raffinatezza, preziosità, l’arte per l’arte, la torre d’avorio, questi titoli di nobiltà che furono in cima al pensiero di un’epoca non certo remota e in cui i nostri padri giurarono, ci appaiono, oggi, men che vana e illusoria chimera di un’arte che mise i sogni al posto delle cose e i fantasmi al posto degli uomini.
Lo schema di tutti i suoi drammi – fu giustamente notato – consiste nella vicendevole corrosione e distruzione di due anime e non sono mai grandi anime per quanti sforzi facciano; chiuse in sé stesse, in aspro rifiuto del mondo, sopraffatte dall’angoscia della realtà; dove la poesia cessa di essere un atto creatore di vita per farsi evasione e rifugio, nel vagheggiamento onirico delle fantasie impossibili e degli irraggiungibili ideali, paghi della bella forma. Eppure, la sua posizione storica non fu né oscura né trascurabile. Nella polemica antinaturalistica, nella crisi decadentistica, nella poetica del simbolismo, fra l’estetismo imperante, questo artista aristocratico, totalmente disinteressato e disimpegnato fuorché con sé stesso, col proprio ideale di bellezza, questo signore della lingua, questo maestro dello stile; questa creatura solitaria, complessa, introversa ed ambigua, malata di ipersensibilità, che volle essere uomo comune in epoca di superuomini eccezionali e che morì di crepacuore al funerale del figlio suicida non si seppe mai perché, fu un autentico piccolo diamante, incastonato in un serto di gemme di vetro: Goethe microscopico, padrone e vittima della fredda perfezione formale, che lo cacciò in un vicolo cieco senza via di uscita per lui e senza possibilità di procedere in quella direzione per chi sarebbe venuto dopo di lui.
Nemmeno a farlo apposta, quasi il caso volesse ribadire un non reversibile giudizio, stasera la televisione lo ricorda con una commedia che non è niente di tutto ciò, starei per dire che non è niente di lui; opera minore e tanto diversa dalla sua restante produzione che, paradossalmente, appunto per questa spersonalizzazione, si sottrae al destino comune a tutte le altre e può essere gustata come un intelligente divertimento senz’altro scopo e senz’altra remora che non siano quelli di un’elegante comicità un po’ sofisticata, tenuta sul filo del buon gusto. Ironia della sorte, potrebbe averla scritta Sacha Guitry o, meglio ancora, Noël Coward. Abbastanza indicativa anche la sua storia. Nel 1922, quando la prima guerra mondiale aveva già fatto piazza pulita di quello che era stato il suo mondo, la sua cultura, la sua estetica e la sua poetica, Hofmannsthal era nella sua villa-ritiro di Rodun. Fu da lì che egli spedì un plico a Max Pallemberg, grande attore austriaco, famoso per la sua proteiformità, capace di passare da Molière a Tolstoi e da Pirandello ad Offenbach. Il plico conteneva questo Incorruttibile che vedrete stasera. Pallemberg dovette essere il primo a stupirsi che proprio da Hofmannsthal gli venisse un copione che non sembrava di Hofmannsthal. Rappresentata il 16 febbraio del 1923, la commedia conobbe un anno di vivo successo. Poi, l’oblio per trent’anni; non è nemmeno ricordata nella bibliografia dell’autore. Fin che, nel 1955, venne riscoperta e nuovamente rappresentata in numerosi teatri tedeschi. Nuovo successo e nuovo oblio. Nessuno, che io sappia, la recitò mai in Italia. E dire che se i nostri attori avessero l’abitudine di leggere, vi avrebbero scoperto una parte che, Ruggeri o Tofano, Besozzi o Calindri, potrebbe fare la fortuna di un interprete.
Teodoro, il protagonista, è una ennesima incarnazione, portata all’iperbole, del servo che domina una famiglia e manovra una situazione. Ha tutta la dignità consapevole e distaccata dei maggiordomi inglesi ed ha il piglio militaresco e risoluto dei maestri di casa austroungarici. E questo sarebbe ancora niente senza il fanatismo per certi principi morali, prendere o lasciare. Consapevole della sua indispensabilità, egli accetta di continuare ad essere il servitore di casa purché si consenta di lasciarlo condurre a termine un’operazione di ripulitura consistente nell’allontanare dal padrone due amanti che turberebbero la pace e l’onore della famiglia sentiti come pace e onore propri.
Il disegno nitido di una scrittura immaginosa e precisa conferisce alla convenzionalità dei personaggi una grazia eccentrica e un insinuante umorismo. Intingendo la penna in un sorriso impercettibilmente velato di nostalgia, il poeta verga un ozioso capriccio che raccoglie pallide e svanite tracce del denso e vertiginoso profumo esalato dal remoto Cavaliere della rosa e la galante e sensuale Vienna rococò diventa la puritana e delicata Vienna di sua maestà cattolica Francesco Giuseppe. Questa volta, Strauss sarebbe sprecato, basterebbe Lehar. Malinconia dei conti che tornano.
Carlo Terron