Corriere Lombardo, 5 ottobre 1954
Nel quadro del persistente anzi accresciuto interesse per l’opera di Oscar Wilde, il racconto intitolato Il delitto di Lord Arthur Savile (1891), oltre ad essere un autentico capolavoro di ironia mistificatrice applicata a una fantasia umoristica che ha per risultato ultimo la critica di una società o di un costume, gode di una particolare fortuna specie sul palcoscenico. Considerate le numerose volte che è stato preso di mira da commediografi più o meno qualificati, è il caso di concludere con la risposta che si dice abbia dato il maggior direttore d’orchestra dei nostri tempi al figlio di Wagner che gli chiedeva il suo parere dopo aver diretto il Sigfrido: “Non preoccupatevi, l’opera di vostro padre resiste a tutto. Anche alla vostra direzione”.
Soltanto nel corso di questo anno, abbiamo assistito a due diverse redazioni sceniche del celebre racconto. Una, allestita dalla televisione in primavera dovuta alla penna di due compatrioti del poeta, certi Dawson e Clowes; e un’altra, ripresa ieri sera all’Odeon, dopo essere stata rappresentata a Milano una quindicina di anni fa dal povero Romano Calò, frutto dell’estro e dell’abilità di Guglielmo Giannini, oltreché riduttore del racconto anche direttore della nuova compagnia ha che per principali esponenti Giuseppe Porelli ed Andreina Paul.
Per gli immemori, ecco, in due parole, i fatti. Secondo la predizione fattagli da un infallibile chiromante, il giovane lord Savile è predestinato a commettere un assassinio. Inglese, uomo d’onore, superstizioso e fidanzato, Lord Arturo è del parere che non si deve mai rimandare a domani ciò che si può fare oggi. Visto che deve compiere un delitto, meglio sbrigarsene subito per non portare come marito e padre un sì terribile pericolo. E infatti si dà da fare quanto più e quanto meglio può, nell’ambito della propria famiglia. Ma senza alcun successo. Tenta di avvelenare con un confetto all’aconito una vecchia zia e, quando crede di essere a cavallo, scopre che l’ aristocratica vecchietta è morta per conto suo. Cerca di far saltare in aria con una bomba-orologio un’insopportabile pastore protestante e rischia di rimetterci la pelle lui stesso. Alla fine disperato, deluso e impermalito, agguanta il chiromante e lo getta nel Tamigi riuscendo a confermare la predizione, e può sposarsi tranquillamente.
La commedia rievocata dal Giannini ha un finale più ottimistico: il chiromante riesce a salvare la pelle.
È un copione architettato con sagace mestiere in vista degli effetti comici, spesso dichiaratamente farseschi, che la trama narrativa assunta nel suo schema meccanico poteva offrire. Oltretutto, e non a suo vantaggio, esso è stato ambientato nei nostri tempi.
Wilde, voglio dire ciò che, alla fine, unicamente conta di Wilde: la finezza ironica, l’eleganza paradossale del linguaggio; quel libertinaggio sottile e aristocratico dell’intelligenza a freddo, eccitata da un cinismo distaccato, che si libera in fantasia surreale avanti lettera, vengono spietatamente e pesantemente sacrificati alle esigenze più elementari del palcoscenico. Come un rullo compressore che spiana un’aiuola di miosotis. È tuttavia un’esperienza abbastanza curiosa ascoltare l’umorismo di Guglielmo Giannini sovrapposto a quello di Oscar Wilde.
Il successo è stato in crescere e, alla fine del secondo atto, monocolo nell’orbita, anche l’onorevole qualunquista è stato chiamato ripetutamente alla ribalta in mezzo ai suoi coloriti interpreti. Giuseppe Porelli ha ostentato i migliori stupori e le più strillanti provocazioni della sua comicità e fu anche applaudito a scena aperta; Andreina Paul, l’unica – insieme a Gualtiero Rizzi e Paolo Porta – che avesse qualche sentore di aristocratica eleganza inglese, è stata brava e seducente. Caricaturalmente, esagitati ma efficaci il Collino, il Parravicini, lo Hintermann, il Nencioni, Rina Centa, Carlo Giuffrè, il Biraghi, la Brand, la Consoli, la Conforti e numerosi volonterosi in smoking rappresentarono la buona società londinese. Una buona società più da via Caracciolo che da Bond Street, ma sempre buona società. La signorina Paul ha suonato anche un Notturno di Chopin.
Carlo Terron