La Notte, 5 febbraio 1975
Toh, chi si rivede! Il vecchio, buono, innocuo Oscar Wilde. E sì che se, oggi coi tempi che corrono sui palcoscenici e no, c’è un autore in ogni senso anacronistico, questi è proprio lui. Come possa venir in mente a un gruppo di attori moderni, intelligenti e provetti, per la maggior parte ancor giovani, di mettersi in cooperativa insieme per rappresentare una sua commedia è abbastanza inatteso. Eppure, eppure ancora qualche stagione addietro la cosa sarebbe stata normale e rispettabile per quel tanto di civile che essa comportava e, nonostante il variar degli umori, trovo che continua a comportare; anche se mi rendo conto, non senza rammarico, lo confesso, che ormai si tratta di un capitolo irrimediabilmente chiuso a sfogliare il quale – a meno di non farne pretesto pr ricreazioni registiche eccezionali, e non è il nostro caso – per quanta buona volontà e scrupolo ci si metta, tutto ciò che si ottiene è di impolverarsi le dita.
Chiuso il caso umano Wilde, rischia di risultar egualmente chiuso anche il caso letterario. Due errori, per non definirli due colpe che si bilanciano. Sarebbe ora di cominciar a confessarcelo. A cosa s’è ridotto il gigantesco scandalo che, per circa mezzo secolo, ha circonfuso il suo nome come un’aureola sulfurea da santo maledetto? Niente di più e niente di meno che all’infame trattamento riserbato alla sua “diversità” da parte della canea dei suoi compatrioti contemporanea, in un periodo, non si sa se più comico o più tragico, nel quale era sconveniente, per non dir vergognoso, non solamente nominare nonché le gambe delle donne ma persino le gambe dei pianoforti a coda; alle quali il leggendario puritanesimo di Sua Maestà imperiale Vittoria regina, ad onta del vago sentor saffico di certe chiacchiere correnti sul suo conto, avrebbe probabilmente trovato normalissimo far infilare un paio di mutandoni.
Oggi i suoi problemi sessuali devianti – d’altronde fino a un certo punto – d’altronde fino a un certo punto, marito e padre rispettabile come fu – Wilde potrebbe esporli e discuterli tranquillamente su un rotocalco, raccogliendo rispetto ed interesse in luogo di onta. (E, del resto, non sta accadendo giornalmente con scrittori di nome sotto i nostri occhi? Non per niente sulle coscienze e sui costumi è passato Freud!). Due anni di lavori forzati a cardar canapa con le mani nella casacca del galeotto e la degradante morte in esilio furono il prezzo esorbitante di una fama non meno esorbitante. Vogliamo aggiungerci l’uno e l’altra immeritati? Facciamo una via di mezzo: esagerati. Occhi negli occhi: quale sarebbe la sua rinomanza senza lo scandalo, l’ingiustizia e il conseguente riconoscimento che, oggi, sarebbero mancati? Pessimo ma anche ottimo affare, insomma. Irrimediabilmente scaduto il suo decedentismo, resosi, nella meno peggio delle ipotesi, solo irritante, se non proprio ridicolo, il suo estetismo, ricondotta l’opera alle sue giuste proporzioni, tutto quello che rimane è un ottimo scrittore di second’ordine del quale sopravvive, fra tanta cenere, una vena di umorismo tutta e tipicamente inglese, passata, con ben più corrodenti veleni in Shaw. E questo in non più di un quarto del suo non numeroso teatro, ché la maggior parte del resto è veramente ormai silenzio. Di codesta esigua eredità positiva, notoriamente la sua ultima commedia, che compirà gli ottant’anni esatti fra dieci giorni, rappresentata lietamente all’Odeon, è il vertice indiscusso, tanto dall’aver fatto chiamare in causa, non senza esagerazione, lo spirito di Congreve e Sheridan. The importance of being Earnest, impropriamente resa L’importanza di chiamarsi Ernesto, è un titolo intraducibile – meglio come qualcuno fece: “L’importanza di essere Franco” – basandosi sul motto di spirito dell’eguaglianza di pronuncia tra il nome Ernesto e l’aggettivo serio, onesto, leale.
Sul fragile pretesto, più che una commedia, più che una vicenda logicamente coerente e umanamente persuasiva, è costruito un capriccio dialogico che concresce su sé stesso in un’estricabile filigrana di intelligenza e fantasia: una farsa sofisticata, per non dire surreale, affidata a un intreccio banale fino all’assurdità – due matrimoni paralleli, figurarsi – nutrito non di sentimenti, e men che meno di pensieri veri e propri; bensì di eleganti ironie, di fuochi di fila di battute per le battute, di paradossi più o meno eleganti e impertinenze più o meno pungenti. Una sorta di soufflé fine a sé stesso, che non riesce più a montare come una volta; la conversazione ironica, satirica via, su una società, dal bersaglio sfocato, un fuoco d’artificio di arguzie ormai appassite e di insolenze irrimediabilmente innocenti. Perché? Eh, perché? Perché la bontà odierna è ormai mille volte più cattiva della cattiveria di ieri. E così, un copione gustato per tanti anni come uno scandalo deliziosamente cinico, è finito col diventare una rosea commedia da educande, data e non concesso che qualche educanda esista ancora.
Incontestabile. Però alla prova della ribalta, il punto di forza superstite del copione, pur illanguidito quanto si vuole, rimane ancora il dialogo: il gioco gratuito dei suoi aforismi, dei suoi paradossi, delle sue eleganti petulanze. Certo, essi non mordono più, però pizzicano ancora. Ad esso – adottato per titolo L’importanza di essere Onesto – si è affidata la discorsiva e non banale traduzione di Maurizio Costanzo, tanto quanto la ritmica e accelerata geometria registica di Pier Antonio Barbieri, al quale Maurizio Monteverde ha fornito scene e costumi di un rigoroso liberty; nel cui quadro Paolo Ferrari, Laura Tavanti, Osvaldo Ruggieri, Rosetta Salata, la Trampus, il Geri, il Bisazza, hanno armonizzato, a egual valore, il loro gaio e applaudito umorismo. Ma il blasone di questa Cooperativa dello Stabile di Padova è stata Elena Zareschi, sorprendente e deliziosa in una parte comica per lei inconsueta.
Carlo Terron