La grenouille avait raison
di James Thierrèe al Teatro Bellini
Napoli Teatro Festival 1-2 luglio 2016
Erano tanti i bimbi accompagnati dalle mamme per assistere allo spettacolo di James Thierrée La grenuille avait raison (La rana aveva ragione) al Teatro Bellini per l'edizione 2016 del Napoli Teatro Festival. Attratti forse dal titolo e da chissà quale storia fantastica li avrebbe coinvolti facendoli sorridere, schiamazzare e applaudire, in realtà facendoli poi soltanto piangere a più riprese. Lo spettacolo infatti scorreva come un puzzle noir, in stile dada, di cui non si capiva dove volesse andare a parare, sembrando le varie gag slegate tra loro senza che ci fosse un fil rouge a collegare l'intero plot. Lo stesso Thierrée che capitanava il gruppetto dei protagonisti sembrava una sorta di Doctor Who (quello della serie televisiva britannica di fantascienza prodotta dalla BBC a partire dal 1963) che ha per protagonista un Signore del Tempo, cioè un alieno viaggiatore del tempo. La scena con le quinte tutte di plastica traslucida ad opera di Thierrée, che firma pure musiche e regia, sembra un laboratorio d'uno scienziato folle attraversato da una selva di fili che scendono giù dalla graticcia tenendo appesi delle lampade quadrangolari somiglianti a degli aquiloni, che talvolta s'illuminano d'un rosso rubino sembrando i petali d'un fiore il cui elemento centrale, più capiente, nasconde il corpo della danzatrice Thi Mai Nguyen. Seguono delle gag demenziali con Samuel Dutertre, dei numeri circensi con la contorsionista ed equilibrista Valerie Doucet, e si fa notare la cantante Mariama con una lucetta in testa e l'attore Yann Nedelec avvolto in un tabarro. L'impressione che si ha è quella di vedere in scena dei clochard alle prese con una scala a chiocciola, un pianoforte e una vasca piena d'acqua dentro la quale passerà alcuni minuti in apnea la brava Doucet. Della rana nessuna notizia. Sarà per la prossima volta.
Peccato che fosse una puttana
di John Ford alla Galleria Toledo di Napoli (28-29 giugno)
regia di Laura Angiulli per Napoli Teatro Festival 2016
Piacerebbe molto a Quentin Tarantino il dramma di epoca elisabettiana Peccato che fosse una puttana (1633) di John Ford, messo in scena adesso da Laura Angiulli nella Galleria Toledo di Napoli nella traduzione di Nadia Fusini. Non tanto per le sue tinte fosche ruotanti attorno all'amore incestuoso di Giovanni e Isabella (Gianluca D'Agostino e Cloris Brosca) quanto per il suo finale sanguinolento durante il quale il fratello sgozza la sorella in cinta di lui, finendo pure accoltellati Soranzo (Giovanni Di Colandrea), marito non amato da Isabella, il suo servo Vasques (Michele Danubio) e per ultimo messere Florio (Stefano Jotti), padre dei due giovani amanti, che si suiciderà. Certamente negli anni precedenti al lavoro di Ford pure Shakespeare aveva fatto scorrere molto sangue in alcuni suoi drammi (Amleto, Macbeth, Riccardo III etc.), ma mai l'incesto e il delitto si erano così tragicamente incontrati. Lo stesso titolo, invero molto esplicito e dal sapore contemporaneo, messo in bocca al cardinale (Gennaro Maresca) in chiusura dello spettacolo, risuona come un finale moraleggiante: una donna giovane, bella, corteggiata e ricca di doni della natura, non può che essere una puttana. Ed è forse per questa ragione che il lavoro di Ford è stato sempre mal compreso e trascurato dalla maggior parte dei critici, a parte pochi romantici come Charles Lamb o Swinburne, e alcuni letterati francesi di fine Ottocento, facendo le spese di quel miope moralismo razionalista con cui la si è sempre accostata. Insomma questo dramma va goduto interamente nella sua rilevanza estetica, e non rapportato a modelli di comportamento che appartengono al sociale. Cosa che hanno ben compreso, dagli anni '60 in avanti, i nostri Visconti e Ronconi e lo stesso Patroni Griffi che ne realizzò un film titolato Addio, fratello crudele. Laura Angiulli regista, cui si deve pure l'elaborazione drammaturgica, ha ambientato l'opera in quel '600 di Ford, facendo vestire ai tredici interpreti (un miracolo di questi tempi vederne tanti lavorare in un lavoro teatrale) i costumi barocchi dell'epoca, utilizzando una scena povera (quella di Rosario Squillace) con sole due colonne e dei sedili tutt'intorno al palcoscenico nudo, quasi in stile commedia dell'arte, rischiarato dalle belle luci di Cesare Accetta, per cui alcuni personaggi sembravano uscir fuori da alcuni dipinti di Caravaggio o di Fragonard. Un lavoro corale in cui Cloris Brosca esaltava il suo ruolo di donna passionale che amava-riamata suo fratello Giovanni, sostenuta dalla nutrice di Alessandra D'Elia secondo la quale un fratello è un uomo-maschio e se una ragazza si sente il diavolo in corpo, prenda il primo che capita, padre o fratello che sia. Agostino Chiummariello era un padre Bonaventura comprensivo; Antonio Speranza un rigoroso spasimante che elimina l'innocente Bergetto di Vittorio Passero senza che il suo servo Poggio (Luciano Dell'Aglio) possa fare niente; Federica Aiello un'Ippolita, amante di Soranzo, che muore avvelenata.
Il funambolo
di Jean Genet
regia di Daniele Salvo
al Teatro Sannazzaro di Napoli (30 giugno 1- 2 luglio 2016)
per il Napoli Teatro Festival 2016
Sembra d'entrare in un bar e poi incredibilmente andando più avanti ti trovi nel Teatro Sannazzaro al n.157 di Via Chiaia a Napoli dove si rappresenta Il funambolo di Jean Genet con la regia di Daniele Salvo, che in questa occasione non s'è fatto mancare nulla, toccando tutti i generi dello spettacolo perseguendo un tipo di teatro totale teorizzato da Gropius e perseguito da Piscator. L'interno della sala, nella scena di Fabiana Di Marco, è ridotto a poche poltrone e il suo posto è stato occupato da una tonda pedana roteante di tipo circense, chiusa ai due lati da due scivoli che partono dal proscenio e giungono sino a metà di quella piattaforma, mentre il fondo del palcoscenico è occupato da uno schermo bianco, utile a proiettarvi immagini di repertorio da cinemateca (quelle curate da Paride Donatelli), riproducenti numeri di clown e acrobazie varie, domatori di leoni, belve ammansite, suonatori di violino, insomma quello che è il mondo del circo nell'immaginario collettivo. Un modo pure per far ri-vivere per un momento ciò che è capitato al 46enne Jean Genet quando incontra il 18enne Abdallah Bentaga, un giovane funambolo figlio di padre algerino e di madre tedesca, diventato suo amante lasciando in lui un segno indelebile e al quale Genet dedicherà Le funambule, un piccolo poema in prosa pubblicato poi nel 1958 dalla casa editrice L'Arbalète. Si respira un'aria parigina da Saint-Germain-des-Prés in questa bella messinscena di Salvo, complici le canzoni di Piaf, Brel, Greco, Aznavour e le musiche originali di Marco Podda, attraverso le quali i due danzatori Yari Molinari e Giovanni Scura, su coreografie di Ricky Bonavita, diffondono sensualità ed erotismo nei loro impeccabili gesti e movimenti ed è bravissima Melania Giglio nei panni d'un nero Pierrot (i costumi sono di Daniele Gelsi) dalla voce chiara dai timbri brechtiani. Andrea Giordana da canto imbacuccato con sciarpa e cappotto, veste il ruolo di Genet, più un padre, uno sparring partner, che un amante del giovane Abdallah, cui da vita con partecipata sofferenza e adesione Giuseppe Zeno che ad un tratto indosserà i panni rossi che s'addicono ad un "cadavere che danza sul filo", mentre Ivan, un vero funambolo, si esibirà sul palcoscenico avvolto da una cortina di nuvole, frutto delle belle luci di Beppe Filipponio. In questo spettacolo affascinante Genet/Giordana descrive l'arte del funambolo che esige un tipo di vita austera quasi ascetica, sempre e comunque solitaria, identificando la figura dello scrittore con quella del funambolo. Certamente una metafora che prendendo spunto dall'arte circense, Genet ci mostra la propria condizione di solitudine, vissuta sulla sua pelle di ladro, criminale, omosessuale: una maledizione quasi molto prossima al deserto e alla morte. Immagine quest'ultima, che accanto alla solitudine, rappresenta una costante dei lavori di Genet. Una morte non come conseguenza di un omicidio o come condanna d'un crimine commesso, come premio, come strada per la santità, ma un modo per cui l'acrobata deve sentirsi morto prima: "solo così la sua esibizione potrà essere perfetta: non più legato alla terra, potrà danzare senza pericolo". Le parole che Genet rivolge al funambolo sono parole che egli dice a se stesso e quella morte che anticipa l'esibizione del funambolo è anche la morte di Genet. "E' da quella morte che nasce la vita, una vita che continua perché risolta in immagine poetica". Si sa che Abdallah cadde dal filo una prima volta nel 1959, poi vi risalì ricadendo ancora una volta ponendo fine alla sua carriera e lasciò definitivamente questa terra cinque anni dopo inghiottendo un barbiturico e tagliandosi le vene.
Les aiguilles et l'opium
di Robert Lepage
al Teatro Politeama di Napoli (29-30 giugno2016)
per il Napoli Teatro Festival 2016
Ormai Robert Lepage sta diventando per il Napoli Teatro Festival quello che Bob Wilson è diventato per il Festival dei due Mondi di Spoleto. Una presenza fissa di sicuro richiamo e di successo come sono stati i suoi precedenti spettacoli Lipsynch e Le Dragon blu. Per questa edizione del 2016, Lepage ha portato al Teatro Politeama di Napoli Les aiguilles et l'opium ovvero Gli aghi (quelli delle siringhe d'eroina) e l'oppio, uno spettacolo del 1991, ri-proposto negli anni successivi un po' in tutta l'Italia, tanto che io lo vidi nella Sala Laudamo di Messina nel gennaio del 1998. Se la memoria non m'inganna adesso ho trovato lo spettacolo completamente cambiato, certamente più attraente e più geniale soprattutto per il modo come Lepage lo ha messo in scena. Inventandosi una scatola quadrata del tempo, un grande cubo con tre facce che si muove roteando in mezzo al palcoscenico, che evidenzia spesso la camera n.9 dell'Hotel de La Lousiana di Parigi, dove un canadese di nome Robert (forse lo stesso Lepage) andandovi per lavoro, abita quella stessa stanza cercando di dimenticare un antico amore. L'attore che l'interpreta, Marc Labrèche molto a suo agio nei panni di Robert e di Cocteau, ri-vive come in un sogno o in un delirio le vite di alcuni personaggi famosi che sono transitati per quella stanza, come Simone de Beauvoir e Sartre alle prese con la sua Nausea, una giovane Juliette Greco sempre in nero, per omaggiare i suoi amici esistenzialisti, che vi passò una notte d'amore col trombettista Miles Davis che si faceva d'eroina e c'era pure Jean Cocteau che s'imbottiva di oppio. L'interno di quel cubo diventa pure uno schermo per proiettarvi perfettamente cieli stellati e immagini di New York, la città in cui Cocteau aveva presentato nel 1949 il suo ultimo film L'aquila a due teste, dandogli l'opportunità sull'aereo che lo stava riportando in Francia, di scrivere una Lettera agli americani, in cui il geniale artista fa il blow up su una nazione destinata a guidare il mondo, esprimendosi nel modo che segue: «Non sarete salvati né dalle armi né dalla fortuna. Sarete salvati dalla minoranza di coloro che pensano». Rotea quel cubo e con lui rotea Wellesley Robertson III che attraverso alcuni pezzi jazz di Davis ci fa rivivere la caduta all'inferno per les aiguilles e il suo ritorno a Parigi dopo diversi anni per comporre e incidere la colonna sonora del film Ascensore per il patibolo di Luis Malle, che resterà un capolavoro della musica. Non incontrerà mai più Juliette Greco. Spettacolo affascinante da non perdere.